ocra 1
OCRA


Ocra 1











Cap. 1

 

Fu il caldo a svegliarmi. Avvertivo il mio corpo nudo sotto il leggero lenzuolo che mi copriva. Dalla finestra aperta, leggermente oscurata da una semplice tenda di stoffa ocra non entrava un filo d'aria. Anche la tenda cadeva a piombo fino a terra. Mi sollevai a sedere sul letto e mi guardai intorno, era la mia stanza, la conoscevo bene, ma era diventata un'abitudine scorrere con gli occhi ciò che mi stava intorno, ovviamente nulla era cambiato da quando durante la nottata mi ero messo a letto.
Alla mia sinistra oltre al basso tavolino che usavo come comodino, c'era la solita cassapanca di plastica a ripiani estraibili e polifunzionali, la porta d’ingresso con la sua tenda, un po’ più spessa di quella della porta-finestra ma della stessa nuance di colore, il blocco-ufficio, un parallelepipedo giallastro da chiuso ma che aperto avrebbe svelato tutte le possibilità di un moderno centro comunicazioni. Proseguendo con uno sguardo circolare, sull'altra parete perpendicolare, la tenda che portava al cubicolo igienico, un guardaroba di plastica con ante riflettenti, una poltrona anatomica nell'angolo, la porta-finestra, una libreria con pochi libri ancora in formato cartaceo e oggetti vari alcuni dei quali non ricordo bene né la loro destinazione d'uso originaria né dove cavolo li avessi trovati.


Tutto era in ordine, difficile essere disordinati quando non si possiede quasi nulla, mi alzai e mi diressi verso il bagno.
Anche il cubicolo sanitario era a posto, il water non si era spostato e il box doccia-UV-idromassaggio & C mi aspettava nel solito angolo. Una cassettiera, anch'essa in plastica ma intonata ai muri  piastrellati di un azzurro pallido e cinereo. Anche la tenda della porta-finestra del bagno era immobile.
Finite che furono le mie abluzioni uscii direttamente sul balcone nudo com'ero e come stavo sempre quando ero in casa e non solo. Il balcone univa le due stanze e non era più largo di un paio di metri. Dall'angolo di fronte alla camera partiva, o meglio proseguiva dal piano superiore una scala a chiocciola che toccando tutti i balconi dei dieci piani di cui era formato lo stabile giungeva fino a terra.
Io abitavo al terzo piano, la quinta porta a destra del corridoio che partiva dalle scale interne e terminava dopo venti porte per lato in una scala antincendio.
Dal balcone non si vedeva molto, il panorama era bloccato da altri nuclei abitativi simili a quello nel quale stavo, un po’ più alti o un po’ più bassi, tutti col tetto piatto e tutti di un indefinibile color sabbia. Schiacciati uno sull'altro, divisa da piccoli cortili cinti da muretti e piccole stradine in terra battuta o plastica ma uniti in alto da un intrico di scale, scalette e ponti sospesi.
In quell'afa ammorbante, nell'aria immobile, dietro alla bruma giallastra e sabbiosa, si intravvedeva l'alone del sole, ormai alto nel cielo.
Era mattina avanzata e per me non era giorno di lavoro. Dei due giorni di turno che mi toccavano alla settimana, quello non era il mio. Non seppi se gioirne o dolermene, in fondo il lavoro era uno dei pochi diversivi che c'erano e che imponessero l'uscire di casa.
Con quel dubbio in testa rientrai nel mio "regale" appartamento e aprii il Box Ufficio per vedere se ci fossero dei messaggi strani. No. Nessuno mi aveva cercato. Nessuno mi stava cercando. Nessuno mi avrebbe cercato.
Passai al cassettone e lo aprii, il piano più alto sporse in fuori a fungere da tavolo, il secondo, opportunamente sagomato uscì a sua volta per formare due sedie, bastava alzare lo schienale. Mi sedetti di lato in modo da poter vedere l'olovisione del Box Ufficio. C'era il notiziario ma non avevo preso il telecomando e il volume era azzerato. Non avevo voglia di alzarmi e quindi lasciai che le mute immagini danzassero davanti a me senza capire a cosa si riferissero.
Guardai sullo schermo che si era sollevato dal tavolo quando lo richiamai dal pulsante e controllai cosa c'era di disponibile da mangiare a quell'ora. Il Pasto Pneumatico è molto comodo, non devi far altro che schiacciare una serie di tasti che, dopo pochi minuti, dall'apposito scomparto, direttamente sul tavolo, sarebbe arrivato l'involucro con le richieste ora esaudite. Peccato però che a seconda dell'ora i menù o meglio i piatti pronti variavano. Così il mattino non si poteva ordinare una pastasciutta o via dicendo. Bibite, alcolici e droghe varie invece non avevano ore specifiche. In qualsiasi momento si poteva ordinare quello che si voleva. Mi limitai a una tazza di syntocafè e a una brioche di lieviti. Ordinai anche un pacchetto di sigarette aromatizzate alla marijuana.
Fu aspirando una sigaretta che mi alzai e andai nuovamente sul balcone. Il panorama non era cambiato, a perdita d'occhio agglomerati di case come la mia, fino all'orizzonte, o meglio fino a quando la polvere canicolare permetteva di vedere.
Ogni tanto una strada più larga dove transitavano i pochi mezzi di trasporto pubblici e privati di  superficie, camion, furgoni, tricicli della P. S. Tutto il resto era sotterraneo. Se no, a piedi o al massimo in bicicletta, i ricchi potevano permettersi quelle elettriche, ma loro si permettevano anche di lavorare quattro o cinque giorni alla settimana. Noi della classe media, con due giorni di lavoro settimanali pedalavamo, però potevamo permetterci di vivere in un’unità abitativa singola. Chi viveva del solo sussidio teneva tutta la famiglia in una casa come la mia, con più una stanzetta per i bambini. C'era ancora gente che li faceva. E pensare che una volta, li ho visti all'olotv in un documentario storico, la gente era molto meno numerosa, tutti possedevano una "automobile" che andava ad idrocarburi e le strade erano piene di queste vetture. La gente si vestiva per uscire perché la temperatura era molto più bassa e le case avevano i tetti inclinati per far scorrere l'acqua delle piogge che duravano quasi metà dell'anno. Ora piove sì e no una volta il mese, quando al Comparto Meteo, fra i posti di lavoro meglio pagati, riuscivano a far condensare l'umidità e a far si che  cadesse.
E' stata colpa loro, di chi ci ha preceduto,  se ora siamo così. Hanno distrutto la terra e ci hanno lasciato le macerie.
Mentre ero occupato da questi tristi pensieri un rumore che arrivava dal cortile mi distrasse, per fortuna, non avevo voglia di pensare al passato remoto, né  alla mia situazione. Mi sporsi quindi dal muretto che faceva da ringhiera e guardai in basso.
In un angolo del cortile, in un piccolo cono d'ombra c'era una coppia tranquillamente impegnata in un amplesso. Guardai meglio, era mia moglie con il mio amico Jack.
Pinky, seduta in terra a qualche metro di distanza, li guardava un po’ distaccata. Forse si stava domandando se valeva la pena unirmi a loro o fare altro, o restare li, semplicemente a guardare. Era una scena abituale. Non c'era molto da fare nella Città-Stato e il sesso era se non altro un piacevole diversivo ed in più un po’ di movimento faceva anche bene alla salute.


 

 

 

Cap. 2


Mi decisi. Meglio scendere con loro che restare da solo a rimuginare sul come sarebbe stato vivere ai vecchi tempi.
Rientrai in casa, presi dalla Cassapanca una pillola eccitante, spensi il Box e dalla scala del balcone scesi in cortile.
Pinky era seduta sulla sua tunica in fibra ed era nuda, guardava la coppia che stava scopando e piano piano si masturbava. Fu distolta dal suo solitario piacere dal rumore dei miei passi. Alzò la testa e mi guardò in tralice un po’ perplessa poi socchiudendo gli occhi un leggero sorriso le illuminò il bel volto scuro, il cranio che come tutti, portava depilato, aveva una bella forma e gli occhi erano di un marrone scurissimo, quasi nero. I seni erano piccoli coi capezzoli eretti per la leggera eccitazione. La pillola cominciava a farmi effetto quindi decisi che la sua compagnia sarebbe stata un piacevole diversivo.
Mi avvicinai sempre guardandola negli occhi, lei smise di toccarsi, tirò su le ginocchia e allargò le gambe, si appoggiò con le mani per terra e si inarcò leggermente protendendo la vagina verso di me. Sapevo quello che voleva, me lo disse con gli occhi e leccandosi le labbra.
Mi inginocchiai di fronte a lei, appoggiai i gomiti a terra e con le mani strinsi i suoi glutei.  Sodi, magri e muscolosi. Sempre guardandola negli occhi in quel nero profondo nel quale stavo per annegare, mi chinai ancora di più fino a quando le mie labbra non sfiorarono le sue, ma non quelle della bocca. Il suo sesso era dischiuso e in quell'ostrica rosa s’intravvedeva la perla, lentamente cominciai a sfiorarla con la lingua, a trattenerla coi denti e con le labbra per poi lasciarla andare. Continuai così per un po’, il tempo non aveva più valore. Non era più quantificabile. La mia eccitazione stava salendo ed anch’io salii, seguii il suono dei suoi respiri sempre più frequenti, modulati, sonori.
Salii, con le labbra, con la lingua, salii e baciai il monte di venere, mi infilai nell'ombelico, andai a cercare i chiodi puntati verso il cielo dei suoi capezzoli.
Lentamente spostai una mano fino ad appoggiarla a fianco della sua testa, con l'altra mi presi il membro e le massaggia le labbra della figa e il clitoride più e più volte, poi pochi millimetri alla volta, entrai in lei. Lentamente, fino in fondo; i nostri respiri si interruppero, divennero ansimi all'unisono. Tolsi la mano che ci divideva e appoggiandomi del tutto su di lei, pelle contro pelle il più possibile, andai a cercarle le mani, allungandoci, ormai un corpo solo, con le dita intrecciate dietro la testa, la baciai. Rimanemmo fermi per un po’, unico movimento le nostre labbra e le nostre lingue che si cercavano, si esploravano.
 Un attimo di dolce eternità.
Sentivo i suoi muscoli della vagina che si contraevano ritmicamente intorno al mio sesso pulsante in sincrono. Cominciai a muovermi lentamente, un moto ondoso che lei assecondava e accompagnava. Il piacere salì sempre dolcemente fino alla sua naturale esplosione orgasmica. Restammo lì ancora per un po’, abbracciati l'uno sull'altra, ansanti e coi corpi lucidi di sudore.
Poi anche i respiri si calmarono e ripresero il loro ciclo normale. Mi staccai da lei e mi stesi al suo fianco. La nostra pelle non era più a contatto.
Guardai il cielo giallo di polvere poi chiusi gli occhi cercando di pensare a nulla.
Sentii Pinky rizzarsi e ancora seduta infilarsi la tunica, mi fece una carezza sul ventre, si alzò e andò via.
Non avevamo detto una sola parola.
Due solitudini che s’incontrano,   scambiano emozioni  per trovare altre solitudini e si lasciano per rimanere nuovamente soli.
Rimasi sdraiato a contemplare un cielo che non era diverso dalla terra, stesso colore, stesso sapore, quasi la stessa densità.


 

Cap. 3

Fu mia moglie che mi sottrasse alle lugubri peregrinazioni mentali che mi assillavano sedendosi accanto a me. Non mi toccò, non mi guardò, semplicemente disse
-Piacere o vendetta?
-Piacevole esercizio ginnico-dissi-e per te?
-Idem.
-Perché non sei venuta da me?
-Ci vengo quando ho voglia di te, non quando ho voglia di sesso.
Questa risposta mi fece un po’ ammutolire. Che cosa voleva dire? Che con me il sesso faceva schifo? Che da me voleva solo un po’ di compagnia intellettuale ma che il piacere fisico preferisse cercarlo altrove?
Girai leggermente la testa e la guardai in controluce. Era indubbiamente una bella donna, in un mondo sempre più androgino lei aveva mantenuto forme e aspetti tipicamente femminili. Certo non aveva mammelle bovine com'era di moda ai vecchi tempi, ma il suo seno era pieno e si protendeva in avanti senza subire la gravità in maniera palese.
La sua figura era armoniosa, non un filo di grasso in più del dovuto, ma comunque morbida e flessuosa. Il suo volto era dolce, i suoi occhi, nocciola con pagliuzze marroni erano dolci. Il suo carattere un po’ meno.
Eravamo sposati da dieci anni ma dopo il primo anno di convivenza anche lei trovò un lavoro e decise di vivere da sola, in realtà abitavamo sotto lo stesso tetto solo che io stavo al terzo piano e lei al sesto. Ci vedevamo spesso, anche se non spessissimo, i nostri turni di lavoro non coincidevano, comunque fino ad ora il nostro rapporto era stato solido, parlavamo di tutto e in lei trovavo anche un’amica, un’amante appassionata, una confidente.
Non si era mai parlato di fedeltà coniugale, ormai non si usava più e solo qualche eccentrico pretendeva la convivenza e la fedeltà monogamica del partner.
Fu la sua voce a rispondere e in parte, a fugare i miei dubbi.
-Mi spiego meglio-disse appoggiandomi una mano sul petto-quando ho voglia di te intendo te in senso globale, tu, l'ammasso di neuroni asfittici che hai nel cranio e anche il coso che hai in mezzo alle gambe. Mi piaci tutto e quando ti voglio, ti voglio tutto e mi piace moltissimo fare l'amore con te.
Questo mi risollevò un po’ il morale ma lei riprese guardandomi il volto ma non negli occhi.
-A volte però ho solo voglia di...come dire... di togliermi un prurito ecco; e venire da te sarebbe come mettersi un vestito nuovo per andare a fare un lavoro sporco, ecco, sprecato.
Lasciò la frase un po’ in sospeso, ma poi proseguì:
-E tu? Cosa facevi con Pinky, vuoi sposare anche lei?
-No-la interruppi-non è così, è...com'è che hai detto? Un prurito. Ti ho visto all'opera e mi è venuta voglia, volevo smettere di pensare a quello che stavo pensando... e comunque Pinky già si stava arrangiando e non ha detto una parola...
Già-mi interruppe-parla sempre meno, secondo me esagera con tutte le pastiglie che prende; guardala... Mi sollevai a sedere e seguii il suo sguardo, Pinky era arrivata alle scale e le salive lentamente, sembrava in trance. Anche lei abitava nel condominio, così come Jack, l'amante occasionale di mia moglie. In genere i rapporti si giocavano all'interno dello stesso stabile o in qualcuno adiacente, troppo complicato spostarsi in un'altra parte della città se non era necessario. Anche al lavoro, quando si scherzava di questi flirt canicolari, si definivano amori da cortile. Ma Pincky ormai vedeva solo più il sesso. Io o chiunque altro non avrebbe avuto importanza. Quello che contava era il piacere, l'immediata scossa che annullava tutto il resto.
-Non mi stupirebbe se prima o poi si facesse impiantare-dissi.
Poi presi la mano di mia moglie, la bacia e me la appoggiai in grembo. Restammo in silenzio; ognuno perso nei propri pensieri. Io riflettevo su quello che avevo appena detto: impiantarsi, ne avevo visti tanti. Sparivano per un paio di giorni e poi li vedevi tornare con un bel forellino di metallo borchiato sul lato sinistro del cranio, giusto dietro l'orecchio. Bastava collegare un cavetto dall'impianto al Box Ufficio e con pochi comandi si potevano provare tutti o quasi i piaceri del mondo, il sesso, il cibo, gli odori, alcune emozioni e chissà quant'altro. Il fatto è che a forza di assaporare questi piaceri elettronici del cibo e delle bevande, ci si dimenticava di mangiare e di bere sul serio. E si moriva.
Il governo della città aveva tentato, in un primo tempo, di arginare questo fenomeno, mettendo dei blocchi nel software di distribuzione, ma era facilmente aggirabile da chi s’intendesse un minimo d’informatica, e per chi non la conoscesse si poteva sempre usare il Box di qualcun altro, ma comunque se una cosa è illegale, trovi sicuramente qualcuno che la vende.
Insieme alla pillola nera, la morte per sete da collegamento (si muore prima per sete che per fame), era la seconda causa di morte fra i civili. La pillola nera, già, quante volte ci avevo pensato prima di sposarmi. Dopo la scuola, obbligatoria per tutti, io avevo scelto di continuare a studiare, non volevo chiudermi in casa con altra gente a guardare l'olovisione, a riempirmi di pillole e/o a scopare. io volevo un lavoro, un qualche cosa da fare,  e l'unica maniera per accedere ai concorsi, sempre più rari era di studiare. Così feci e dopo qualche tempo ebbi  fortuna, solo così si può chiamare, perché fu bandito un concorso per tecnico degli impianti di rifornimento di terza classe e lo vinsi per un lavoro di due giorni alla settimana. Se avessi continuato con gli studi forse avrei potuto fare carriera e passare al secondo e poi, magari, al primo livello. E poi ancora, sempre studiando, ma i concorsi più si alzava il grado più erano rari, e guarda caso ci accedevano solo i parenti e gli amici dei potenti, arrivare ad essere Amministratore e abitare verso il centro della città, ammesso che ne avesse uno, comunque vicino ad un centro amministrativo dove ogni appartamento aveva il suo giardino, anche se striminzito e dove non esistevano gli amori da cortile, c'erano, ma si preferiva avere e pretende un po’ più di privacy.
Ma io conobbi lei, all'entrata e all'uscita dalla scuola per tecnici. Non ricordo più bene quale scusa trovai per parlare con lei, fatto sta che ci incontrammo sullo stesso terreno. Ci piacevano gli stessi programmi olotv, volevamo entrambi un lavoro e non essere larve, ascoltavamo la stessa musica. Insomma ci innamorammo. Oltretutto lei abitava solo a qualche condominio di distanza, quindi potevamo spesso ma non sempre, prendere la metro insieme. Io ero un po’ più avanti di lei negli studi e quindi feci il concorso per primo. Quando lo vinsi ed acquisii il diritto ad un alloggio tutto mio, decidemmo di sposarci e l'alloggio del tutto mio divenne l'alloggio del tutto nostro.      Fu un anno meraviglioso. Io lavoravo, lei studiava. Quando eravamo insieme in casa era sempre una festa. Facevamo l'amore ovunque ci capitasse, indifferenti all'ora e al momento, accorti solo per la scuola ed il lavoro. Poi anche lei fece il concorso e lo vinse e andò a lavorare. Non potevamo avere un alloggio più grande, quello era previsto solo in caso di figli, ma lei, essendo ormai un tecnico, poteva averne uno tutto suo. Così aspettammo che si liberasse un alloggio nello stesso stabile e lei lo occupò. Nei primi tempi eravamo sempre insieme lo stesso, poi mano a mano cominciammo a stare un po’ più di tempo ognuno per conto suo.
Prima di conoscere lei non mi ero mai posto il problema della fedeltà o di un rapporto affettivo stabile. Quando avevo voglia di sesso, scendevo in cortile o in qualcuno vicino dove sicuramente avrei trovato una ragazza con altrettanto desiderio. Quando però la conobbi, non ebbi più bisogno di altro, soddisfaceva pienamente ogni mia aspettativa ed io per lei, o almeno credevo.
Ma poi stando più da soli, succedeva che non si aveva voglia di aspettare l'altro e allora si scendeva in cortile. A cercare gente come Pinky o come Jack.
E ora lei mi veniva a dire che erano due cose diverse. Mi sentivo un po’ perplesso, quasi sbalordito. Io nella mia ignoranza pensavo fosse solo sesso, anche con lei. Lei invece ci aveva messo dentro anche il sentimento. L'amore. Mi sentii un po’ una merda. Cercai di guardarmi dentro e trovare un qualcosa: potevo tranquillamente affermare che pensavo spesso a lei, era arguta, divertente, faceva bene l'amore con me, potevo anche parlare di lavoro, visto che anche lei era impegnata e non c'era la solita invidia di chi viveva del solo sussidio nei confronti di chi lavorava. Quindi era ovvio che preferissi stare con lei quando avevo voglia di un po’ di compagnia.
Per il resto quasi tutto, anche per i Non Occupati, era a disposizione gratuitamente: cibo, programmi olotv, droghe varie, vestiti, tranne quelli di lusso. Insomma gli altri non è che servissero a soddisfare qualche bisogno, erano una compagnia, qualcuno con cui mangiare ogni tanto, commentare un olo, fare sesso.
C’eravamo sposati perché all'epoca lei studiava ancora e c'erano delle agevolazioni per i coniugi a carico. Insomma forse un po’ di affetto lo provavo, quando si sta bene con una persona, ci si affeziona. Ma la amavo? Non riuscivo a darmi una risposta.
Non avevo ancora mosso un muscolo.
Fu lei a togliermi da quella trance angosciante. Tolse la mano dal mio petto con una carezza, io mi misi  a sedere e la guardai, lei girò la testa e mi fissò negli occhi.
-Non capisci vero?-disse dolcemente. Non sapevo cosa rispondere. Mi sentivo annichilito, perso, guardavo i suoi occhi, cercavo di penetrarli, di entrare in lei, di capirla, di entrare in empatia. Tutto attorno il resto era sfuocato, lattiginoso.
Il suo volto, il suo corpo e più in là il cortile, i muri, inconsistenti, privi di materialità.
Non sapevo che cosa dire. Sabbia nella sabbia, mi sentivo come una statua di sabbia che si sgretola in un mondo di sabbia. Il vento limava tutte le superfici in vortici di polvere giallastra. Tutto era giallastro. Anche il mio cuore mi sembrava giallastro. Tutto era giallastro, ocra.
-Non so che dire.
Distolsi lo sguardo e cercai di focalizzare l'ambiente che mi circondava. Vedevo solo polvere gialla. Spostai il braccio a circondarle la vita, sentivo sotto la mano la calda, serica morbidezza della sua anca. La desideravo. Un singulto uscì spontaneo dalla mia gola, un peso mi chiudeva lo stomaco, una morsa mi stringeva il cuore.
-Non so che dire-ripetei-hai sempre avuto la capacità di spiazzarmi.
-Ah-sorrise-qualche reazione, non solo biologica allora ce l'hai. Forse puoi ancora salvarti-disse cercando di nuovo di agganciare il mio sguardo.
La fissai nuovamente, interrogativo.
-Forse in te c'è ancora qualche barlume di sentimento. Forse basterebbe riportarlo a galla.
-Non so-balbettai-non capisco bene, cioè ciò che vuoi dire, cioè...
-Non capisci o fai finta di non capire?
-No, o meglio si, cioè, cazzo, non è che non voglia capire, ma non capisco, è come se qualcosa di importante mi sfuggisse, anche se è li, davanti agli occhi. E' come sabbia fra le dita.
Presi un pugno di terra e me lo feci scorrere nella mano. Guardai la polvere che si alzava e veniva portata via dal vento mentre i granelli più pesanti ricadevano al suolo. Dov'ero io? Nella polvere, nel pulviscolo che vagava nell'aria o nella terra che ricadeva?
Cosa voleva dirmi? Dove voleva portare il mio pensiero? Non riuscivo proprio a capirlo. Cosa voleva da me?
Glielo chiesi. Non rispose. Scivolò via dal mio abbraccio e si alzò.
-Vieni-disse.


 

 

Cap. 4


Allungò una mano, la presi e mi alzai a mia volta.
Adesso eravamo di fronte, occhi negli occhi. Mi chinai leggermente e la baciai sulle labbra con delicatezza, poi la strinsi a me. Sentivo il suo corpo contro il mio,caldo, dolce, confortante. Il nodo al mio stomaco si strinse ancora di più ed io strinsi lei ancora di più. In quel momento avrei voluto fondermi con lei, introiettarla, creare un unico corpo, una statua con due schiene eretta in un mondo di sabbia.
Ma il vento ci sgretolava. Mollai la stretta, mollai la presa. Rimasi lì a guardarla.
-Andiamo.
Mi prese la mano e si incamminò. Mi lasciai tirare e la seguii docilmente. La sabbia sollevata dai nostri piedi scalzi formava dei piccoli vortici intorno alle caviglie, continuai a guardarli mentre mi lasciavo condurre. Poi alzai gli occhi, vidi le sue gambe, scure e tornite, i morbidi glutei, la schiena eretta, le spalle dritte, il capo leggermente proteso in avanti, deciso. Aveva una meta. Non sapevo quale, seguivo i suoi passi come uno zombie. I miei pensieri erano come un mosaico di tessere scomposte, un puzzle incompleto, un labirinto senza via di uscita, così come lo erano le stradine che stavamo solcando, com'era tutta la città, com'era il mondo.
Mi accorsi che stavamo entrando nella parte vecchia del quartiere. Un tempo era il centro di una cittadina che era distante dalla metropoli, ma poi le varie periferie si allargarono fino a fondersi le une alle altre inglobando tutti i paesi vicini.
Ma lì nel vecchio centro resistevano ancora le vecchie case e le vecchie strade, vicoli stretti, scale esterne, qualche raro balcone. Ma sempre la polvere, che tutto copriva e tutto nascondeva.
Giungemmo infine in una specie di cortile, ma non c'erano muretti a delimitarlo, ma solo case, sapevo che una volta era una piazza. Intorno a me basse costruzioni giallastre coi tetti piatti per l'acqua. Al centro una specie di monumento, vecchio, molto vecchio, eroso dai secoli ma ancora in piedi. Mi avevano detto che era di granito, ormai era solo un parallelepipedo a base quadra che si stringeva mano a mano verso la punta. Se c'erano iscrizioni o altro ormai erano state cancellate dal vento. Era ormai solo un patetico simbolo fallico che si spingeva in alto nella bruma gialla e sporca.
Ci dirigemmo verso una delle case all'angolo, verso una porta che si apriva sulla piazza come un nero foro rettangolare, e tale era.
Mia moglie si fermò proprio davanti all'ingresso, mi mise le mani sulle spalle e mi guardò negli occhi
-Entra e vai-mi disse.
-Ma p...-feci per dire ma lei mi interruppe posandomi un dito sulle labbra.
-No-fece-non dire niente, entra e basta. Ci rivedremo a casa.-terminò.
Mi lasciò andare e si incamminò verso la via dalla quale eravamo arrivati, non si voltò neanche una volta. All'improvviso scomparve, non la vidi più. Solo le case, offuscate, e me, offuscato, come i miei pensieri e solo, molto solo. "Entra e basta" mi aveva detto. Perché? Mi chiesi. Con quale scopo? Non lo sapevo, non mi aveva detto niente. Rimasi li, imbambolato non so per quanto tempo. Nessuno entrava o usciva dalla piazza, dalla porta non si udiva nulla. Ero solo in mezzo ad un nulla di sabbia e cemento. L'ocra gialla mi entrava negli occhi e nel naso ed io ero lì fermo a guardare quel buco nel muro, non sapevo cosa fare, sapevo solo che mi aveva detto di entrare. Perché mai mi ero lasciato trascinare fin lì? Perché sarei dovuto entrare? Cosa mi attendeva una volta varcata la soglia? Dov'ero? Entrai.
Fuori era il silenzio. Dentro il brusio. Fuori la luce. Dentro il crepuscolo. Fuori il deserto. Dentro la vita, la gente.
Appena varcai la soglia ed entrai sentii uno sbuffo alle mie spalle, intuii che fosse uno schermo acustico perché da fuori non si sentiva niente mentre all'interno il vociare delle persone era chiaramente avvertibile anche se non disturbante. La luce era fievole e donava alle cose morbide ombre, un chiaroscuro dato da obsolete lampade al neon che correvano sugli spigoli del soffitto. La stanza era ampia, compresi che era un vecchio Bar. Sapevo che una volta le città erano piene di questi posti dove la gente si trovava per mangiare, bere, fare giochi sociali, conoscere altre persone. Probabilmente qualcuno aveva riesumato e rimesso in funzione uno di quei vecchi locali. Mi guardai intorno. Alla mia sinistra la sala procedeva per qualche metro ed era occupata da una decina di tavolini rotondi con quattro sedie per ciascuno. Metà circa erano occupati da persone sole o a coppie, qualcuno leggeva, libri di carta o videolibri, altri parlavano a bassa voce. Alla mia destra la sala era simmetrica ma al posto dei tavolini c'erano dei separé, cinque per lato con divanetti e tavolini rettangolari. Non riuscivo a vedere se fossero o meno occupati. Di fronte a me lo spazio libero e poi un bancone a forma di U, sulla sinistra partiva una scala che portava ad una specie di ammezzato che faceva da contro tetto al bancone stesso ed al quale erano appese  delle staggere di bicchieri di forme e dimensioni diverse. Alla destra del bancone, di fianco al primo separé una porta aperta che dava su un corridoio. Dietro il bancone, un uomo. Sollevò lo sguardo, mi fisso per un attimo, mi fece un sorriso di cortesia e riprese a fare quello che stava facendo prima, mi avvicinai al bancone, non sapevo cosa fare, cosa dire. Non ero l'unico nudo li dentro ma in quel momento la mia nudità mi imbarazzava, avrei voluto la mia tunica che mi proteggesse. In realtà nessuno aveva fatto caso a me. Solo l'uomo del bancone mi aveva notato. Mi aveva guardato ed era stato quello sguardo che mi aveva messo a disagio, mi ero sentito come spogliato, anche se ero nudo. Mi sembrava che con una sola occhiata mi avesse guardato dentro e adesso sapesse tutto su di me. Mi avvicinai ancora un poco e riuscii a vedere cosa faceva dietro al banco: stava affettando dei limoni in un piattino.
Limoni veri? Piattini? Voltai un po’ lo sguardo e cercai ma non vidi olo, schermi per gli ordini, feritoie da trasporto. Niente né sul bancone né sui tavolini che potevo vedere. Rimasi lì come un deficiente, non sapevo come comportarmi, cosa dire, cosa fare. Non sapevo neanche che cosa pensare, ero lì perché lei mi ci aveva portato. "Entra" aveva detto, ed io ero entrato. E ora? Dovevo uscire? Avevo visto il bar, un residuato, un anacronismo, una specie di rievocazione storica. Che significato, ammesso che ne avesse uno, poteva avere per me?
Va bene, non disdegnavo le vecchie leggende e mi piacevano gli oggetti di antiquariato, anche se non potevo permettermeli, ma perché mi aveva portato li? Perché mi aveva fatto entrare? Da solo?
Ero un po’ spaurito, non sapevo cosa attendermi o cosa avrei dovuto fare. Perché non era entrata con me? A chi aspettava la prossima mossa?
Fu l'uomo a salvarmi dall'empasse, si avvicinò a me dall'altra parte del bancone e mi porse un foglio di plastica e un "buon giorno signore".
Risposi anch'io con un buongiorno e non sapendo cosa fare presi il foglio che mi porgeva e lo guardai. Era un menù. Almeno quello potevo capirlo.
-Se vuole accomodarsi ad un tavolo fra un minuto sarò da lei per l'ordinazione-disse sorridendo.
Il sorriso era cordiale ma lo sguardo sembrava sempre indagatore, con gli occhi socchiusi che sembrava non sbattessero mai. Sorrisi a mia volta, risposi con un grazie e mi avviai verso un tavolino. Era ovvio che le persone da sole dovessero andare ai tavoli, i separé erano per le coppie o i gruppi e l'uomo dicendomi di "accomodarmi ad un tavolo" praticamente non mi aveva dato scelta.
Mi accomodai quindi al primo tavolino libero, inconsciamente sedetti sulla sedia con le spalle al muro, di li potevo guardare tutta la sala, gli altri tavoli, il bancone, i separé, la scala e l'ingresso al corridoio.
L'ingresso era di fianco a me, le persone sedute agli altri tavoli non mi notarono, solo uno alzò lo sguardo per un attimo da libro che stava leggendo, mi guardò appena, poi si ributtò nella lettura, pensai vagamente che forse aspettava qualcuno. In fondo non era un brutto posto per aspettare, meglio che nei cortili o nei vicoli.
Provai a guardare il menù, non era uno schermo e non era interattivo, era proprio quello che sembrava, un foglio di plastica con stampate le varie possibili ordinazioni. Gli diedi una scorsa, poi un'altra, c'erano soprattutto bevande, molte le conoscevo, altre non le avevo mai sentite, anche i piatti avevano nomi strani, vecchi, chissà come facevano a riprodurre certe anticaglie, probabilmente era roba di sintesi che vagamente poteva assomigliare agli originali. Optai per una birra, non pensavo sarebbe poi stata così diversa da quella che avrei potuto bere dal mio distributore casalingo. Un minuto non era ancora passato e avevo appena deciso cosa ordinare che mi ritrovai a fianco l'uomo del banco. Me lo ritrovai così all'improvviso che quasi mi spaventò. Sempre col suo sorriso cordiale ma che sembrava incollato sulla faccia mi chiese cosa poteva portarmi.
-Una birra grazie-risposi.
-Subito signore-disse-si inchinò solo col capo, fece un dietro front e andò di nuovo dietro al bancone, ci doveva essere un'apertura sul lato destro. Lo seguii con lo sguardo, anche lui era anacronistico, non portava come quasi tutti, una tunica senza maniche che arrivava fino al ginocchio e che era praticamente l'unico capo di abbigliamento che tutti usavano. No lui portava dei calzoni, quelli con due gambe; in genere si usano per le cerimonie ufficiali o li portano i ricchi o gli eccentrici, ed in più, infilata nei calzoni, portava una blusa con le maniche, lunghe che coprivano i gomiti; ma non solo, come ultimo vezzo retrò portava dei calzari. Il tutto, calzari compresi non erano del solito color sabbia o di qualche sua nuance ma erano neri, completamente neri.
Sorseggiai la mia birra, aveva un buon sapore ed era fresca. Ancora non riuscivo a capire che cosa ci stessi a fare lì, non pensavo che mia moglie mi avesse mandato ,o meglio accompagnato, lì solo per bere una birra. Cosa doveva succedere ora? Cosa dovevo aspettarmi? Dovevo attendere qualcuno? Che accadesse qualcosa. Bevevo, mi guardavo intorno, ma continuavo a non capire.
Mi stava salendo un po’ di rabbia. Volevo capire ma non avevo gli strumenti adatti.
Finii la birra e mi chiesi se non fosse il caso di berne un'altra, ma poi decisi che non era il caso. Posai il bicchiere ormai vuoto, sul tavolo e come d'incanto l'uomo del banco apparve al mio fianco.
-Posso servirle altro signore?-disse-magari uno stuzzichino?
-No grazie...e che-stavo per raccontargli che non sapevo per quale ragione fossi li ma mi sentii un idiota e tacqui.
-Sta forse aspettando qualcuno?-mi prevenne quasi.
-No...cioè - dissi decisamente impacciato.
-Allora qualcuno l'ha mandata qua-disse con l'aria di uno che la sa lunga.
-Ebbene sì...cioè, vede, mia moglie, ecco...-credo di essere diventato rosso e mi sentivo le mani sudate, non sapevo più che dire o che fare. Ma nuovamente l'omino mi anticipò.
-Bene allora, guardi, salga le scale e parli con il bigliettaio - il suo viso si era fatto più serio. Prese il bicchiere dal tavolo e tornò alla sua postazione. Mi guardai attorno ma nessuno degli avventori aveva fatto caso al nostro scambio di battute e se anche lo avevano notato, evidentemente, non era di loro interesse, nessuno si voltò verso di me. Ero indeciso. L'uomo del banco aveva detto che mi aveva mandato qualcuno, ed effettivamente mia moglie mi aveva portato fino a lì e non mandato, ma non era il caso di fare dei sofismi, era lì che comunque voleva che andassi. Se così era, l'uomo mi aveva detto di andare a parlare con il bigliettaio.
Bigliettaio? Che c'entrava un bigliettaio? Il termine significava semplicemente uno che ha dei biglietti. Ma a che possono servire dei biglietti?
Sapevo che c'erano ancora persone che per hobby scrivevano a mano su della carta, appunto su dei biglietti. E poi se li scambiavano. Ma io che c'entravo? Dovevano darmi un biglietto? Qualcuno mi aveva scritto? Mia moglie? Oppure avrei dovuto scrivere io un biglietto. Impossibile. Sapevo leggere, come tutti, e se necessario potevo scrivere su una tastiera, ma scrivere a mano, no, non avrei saputo da che parte cominciare. Non sapevo bene cosa fare, ma tanto, mi dissi fra me e me, non avevo niente da perdere a seguire questo strano gioco.
Mi feci forza, qualche respirazione profonda e mi alzai. Mi diressi lentamente verso le scale, sapevo di essere e di sembrare molto impacciato ma nessuno fece caso a me, anche l'uomo del bancone non fece nulla, mi voltava le spalle e stava trafficando dietro al banco, o forse lo faceva apposta per lasciarmi fare da solo. Non mi spronò né mi fermò. Semplicemente continuò a trafficare. Cominciai lentamente a salire le scale puntellandomi al corrimano. Gli scalini erano, così come il mancorrente, in legno. Una rarità riflettei con un angolo della mente mentre il resto di essa continuava a chiedersi e a chiedermi quale significato avesse tutta quella storia.
Giunsi infine al pianerottolo, praticamente era il soffitto del bancone, si allungava alla mia destra come un balcone con la ringhiera, sempre in legno, per terminare in corrispondenza della fine del bancone con un corridoio che si inoltrava nella casa. Era scuro e non vidi nulla se non una specie di gabbiotto che faceva angolo, un semplice parallelepipedo di vetro o plastica. Posi il piede sull'ultimo scalino e quindi sul ballatoio, alla mia destra il montante della scala, dove terminava il mancorrente, si allargava a formare un piccolo ripiano quadrato, una specie di tavolino. Sopra di esso una ciotola che sembrava di terracotta, nera, lucida. Dentro la ciotola c'erano vari foglietti di diverse misure con strani disegni e simboli e numeri.
Intuii che doveva essere una specie di carta moneta come usava una volta. Li guardai con più attenzione. Erano stropicciati, un po’ sporchi, macchiati, slabbrati agli orli, sembrava che fossero stati usati a lungo. Mi chiesi se non fossero originali dell'epoca. Avrebbero avuto almeno...non riuscivo a quantificare quanti anni potessero avere. Chi si ricordava quando il denaro era stato completamente abolito? Io no di certo, comunque se così fosse di anni ne avrebbero avuti parecchi. E adesso? Cosa dovevo fare? Anche quelli erano biglietti ma non li aveva il bigliettaio. Non c'era nessuno lì. Intuii, più che vedere che se c'era qualcuno avrebbe dovuto essere dentro al gabbiotto. Mi sembrava l'unica cosa logica in quel marasma di illogicità. Ma perché mettere dei biglietti-soldi lì in cima alla scala? Bella domanda mi dissi. Realizzai anche che non potevo restare fermo lì come un palo per molto tempo. Qualcosa dovevo pur fare. Ma cosa?


Sarei potuto scendermene e andarmene, ma poi cosa avrei detto a mia moglie? Potevo tornare al tavolino, ma l'uomo del banco mi aveva mandato su. Bene, l'unica cosa da farsi era andare avanti e vedere cosa sarebbe successo. Pensai anche che se lì avevano lasciato dei soldi a qualcosa dovevano pur servire, da sempre il denaro aveva uno scopo principale, anche se ormai ne facciamo a meno. Acquistare qualcosa. Piano piano nella mia mente si affacciò un discorso logico: i soldi servono per acquistare cose, lì c'erano dei soldi; io dovevo andare dal bigliettaio forse, mi dissi, se do dei soldi al bigliettaio, questo mi darà qualcosa in cambio. Forse non era una soluzione particolarmente logica, forse era un po’ contorta, ma era l'unica che mi veniva in mente. Io con soldi, compro, Bigliettaio ha cose, vende. Io do soldi a Bigliettaio e lui dà a me qualcosa. Questo avrei potuto saperlo solo mettendo in pratica il mio ragionamento. Fu quello che feci, presi un po’ di quei biglietti-soldi e mi avvicinai alla guardiola che all'improvviso si illuminò delineando al suo interno una forma umana. Mi chiesi con un po’ di ironia se la luce si sarebbe spenta se io avessi posato i soldi. Sorrisi, ma non trovai la risposta. Proseguii sul ballatoio e con pochi passi raggiunsi la guardiola, come prevedevo era di plastica opaca, andava dal soffitto al pavimento, sul davanti aveva una finestrella e dietro di essa un uomo era seduto ad una specie di banco appoggiato al pannello anteriore sul quale c'erano dei mazzi di biglietti di vario colore e con dei numeri scritti sopra. Mi avvicinai e guardai il tipo. Era insignificante, uguale a tanti altri, sguardo spento e basta. Lo distingueva il fatto di avere sulla testa, posato un po’ di sbieco uno strano copricapo piatto con un'aletta rigida sul davanti e degli strani fregi tutt'attorno.
Alzò gli occhi e mi guardò abbozzò una specie di sorriso e mi chiese.
-Desidera?
Non sapevo che dire, potevo dirgli che era stata mia moglie a portarmi lì o che l'uomo del bancone mi aveva spinto sulle scale.
Probabilmente sapeva già quasi tutto, forse non che mi mandava mia moglie ma che l'omino al bancone mi  avesse mandato su era una cosa abbastanza ovvia. Non sapevo che altro dire o fare quindi gli sorrisi a mia volta, un sorriso impacciato e timido, con un semplice -buongiorno-gli diedi le banconote che avevo prelevato dalla ciotola in cima alla scala. Ovviamente non sapevo quante ne avevo e meno che mai se avessero un valore o cosa.
Semplicemente ne avevo presa una manciata.
Per il bigliettaio invece avevano un significato ben preciso. Le prese, le contò, le divise per colore e per numero e aperto un cassetto sotto al suo banchetto, le ripose ordinatamente in vari scomparti, poi richiuse il cassetto, segnò quella che mi sembrava una cifra su un foglio di carta che aveva davanti poi prese un biglietto da uno dei mazzi che aveva sul banchetto, me lo porse, guardando prima il biglietto e poi me.
-E' la numero dodici, più o meno verso la metà del corridoio. Infili il biglietto nella fessura di fianco alla porta, la scatola gialla.
Non sapevo cosa fare, se non proseguire. Lo guardai.
-Grazie-dissi.
Cercavo di essere educato e sicuro di me. Non lo ero.
Presi il biglietto e feci un paio di passi, alle mie spalle la luce del gabbiotto si spense. Mi fermai e guardai il biglietto, era di plastica rossa, su un lato aveva un chip dorato e sull'altro il numero dodici stampigliato in nero. Nient'altro. Ne dedussi che se c'erano altre cose erano sul chip, ma evidentemente non erano per me.
Le avrebbe lette la fantomatica macchinetta gialla, il solito giallo ocra, il numero era sicuramente quello della camera, a metà del corridoio aveva detto l'omino, mi avviai lentamente con il mio biglietto in mano.


 

Cap. 5

Sei, otto, i pari alla destra, ovviamente i dispari dall’altro lato. Dieci, dodici. Una porta, proprio una porta, non saprei se di plastica o di legno, ma proprio una classica porta. Non aveva maniglia ma di fianco c’era la scatola gialla con una fessura.

Potevo ancora scappare, scendere le scale, ritornare nella piazza e cercare la via di casa.

Non lo feci. Infilai la tesserina che mi aveva dato Bigliettaio nella scatola gialla.

La porta, scorrevole, si infilò silenziosamente nel muro. C’era solo buio. Un altro schermo, pensai. O lo varchi o te ne vai.

Feci un passo ed entrai. Fui avvolto da uno strano profumo. In un mondo che odora solo di sabbia e calore qualsiasi altro profumo è come una botta in testa, penetrante.

Sapeva di fiori, di spezie, entrava nel naso ma lo sentivi anche quasi in bocca, un sapore pieno, intrigante, piacevolmente stuzzicante.

La stanza, non troppo grande ma neanche minuscola, colpiva subito l’occhio per la varietà di colori. Cavolo non avevo mai visto tanti colori insieme se non all’olotv.

Pareti cangianti che cambiavano colore in continuazione, inseguendo strani arcobaleni.

In fondo alla camera un enorme letto. Ci si sarebbe potuto dormire tranquillamente in quattro. Su un lato una porta, mimetizzata nel muro. Verso di me, sulla sinistra due poltrone e un tavolino con sopra un bicchiere ed una bottiglia.

Su una delle poltrone due occhi verdi mi fissavano. Gli occhi appartenevano ad una donna, seduta, le gambe accavallate  a piedi nudi, con indosso  una specie di lunga giacca, con le maniche ampie, che la copriva fino alle ginocchia, legata in vita da una cintura.

In mano aveva un bicchiere, ma il suo sguardo era fisso nel mio.

Non so quanti secondi rimasi imbambolato a guardarla. L’impatto era stato così strano, anomalo, quasi devastante. Il profumo che aleggiava, l’impatto visivo di una cosa forse ancestralmente nota, ma non riconosciuta.

Cazzo, aveva i capelli! Non avevo mai visto dal vivo qualcuno con i capelli. Neri, lisci, divisi  alla sommità della testa, le ricadevano ai lati del viso, nascondendo le orecchie e creando dei conturbanti chiaroscuri su un volto rosato.

Dov’ero finito?

Senza staccare lo sguardo da me posò il bicchiere sul tavolino fra le poltrone.

Ero imbarazzato, lì, in piedi poco oltre la soglia, nudo, davanti ad una visione che non riuscivo a completare, a renderla intera, perdendomi in tutti i particolari dai quali era composta.

La vestaglia, rossa, di un materiale strano, morbido, lucente. Sotto si insinuava la curva dei seni, pieni, sodi.

Le dita dei piedi, lunghe, con le unghie colorate. Unghie colorate?

Le mani, affusolate ma robuste, unghie dello stesso colore di quelle dei piedi.

All’attaccatura dei seni un piccolo tatuaggio, unico ornamento, un simbolo a me sconosciuto.

Le ginocchia, chiare, la rotula in leggera evidenza, i polpacci, dolci che terminavano in caviglie sottili.

Le labbra, piene ma sottili, naturalmente rosee. Atteggiate ad un sorriso strano, non di scherno, neanche di curiosità. Sembrava accettazione consapevole. Come se Lei sapesse già chi ero, cosa volevo, perché ero lì.

Ero io però che non sapevo tutto ciò. Non avevo mai visto una donna così bella e così da vicino, eppure distante galassie.

Accentuò il sorriso e con la mano mi indicò qualcosa alla mia destra. Riuscii a fatica a staccarmi dal mio basito stupore e mi voltai. Appesa ad un gancio al muro c’era un indumento simile a quello che indossava lei, però di un azzurro scuro. La indossai e me la cinsi in vita, sembrava di indossare una carezza. Con qualcosa addosso mi sentivo un po’ meno a disagio.

Un altro cenno con la mano, un altro sorriso. Esegui gli ordini e andai a sedermi sulla poltrona, quasi di fronte a lei. Presi il bicchiere e sempre in silenzio e senza mai perdere il contatto oculare sorseggiai la bevanda. Non so cosa fosse, credo un cocktail, di vini e succhi di frutta. Niente mi sembrò così buono, mi resi conto che avevo la bocca asciutta e secca, ne assaporai ancora un sorso poi posai il bicchiere di fianco al suo.

Non riuscivo a staccare il mio sguardo dai suoi occhi, verdi, scuri, con piccole macchioline dorate e nere, ipnotici, profondi. Una pozza nella quale era impossibile non annegare.

Non dissi niente, ero teso allo spasimo, sentivo tutti i miei muscoli contratti.

Fu Lei a rompere il silenzio, con un tono normale, quasi a bassa voce, ma con un timbro che entrava e rimbombava nel cervello disse solo:

-Rilassati.

A malapena riuscii ad   appoggiare la schiena alla poltrona e cercai di distendere i muscoli, lei si alzò, e si avvicinò. Non si atteggiava a seducente, nessun movimento provocatorio, niente moine.

Era seducente, conturbante, naturalmente intrigante. La guardai mentre si portava alle mie spalle poi fui costretto a contemplare il muro che continuava a cambiare colore mentre le sue mani massaggiavano sapientemente il mio collo e le mie scapole.

Che bella sensazione, difficile da provare, normalmente noi si arriva direttamente al sesso, fatto e finito. Certe raffinatezze si vedono all’olo ma non si praticano. Sentire due mani che sciolgono i nodi dei muscoli è un piacere impagabile.

Cominciai a sentirmi meglio e un po’ a mio agio.

Non durò a lungo, sono abituato a prendere qualche iniziativa e stare lì senza far niente mi sembrava strano. Però non sapevo né cosa né come fare. L’unica cosa che mi venne in mente da dire fu:

-Me lo insegni?

Fu una mezz’ora di una piacevolezza e una tranquillità indescrivibile.

Si alzò, mi prese per mano e mi portò su quell’enorme letto, sciolse il nodo della sua cintura e lasciò che la vestaglia le scorresse addosso. Quanto era bella, troppo.

Si sdraiò sulla pancia e guardandomi in tralice si limitò a dire:

-Prova, chiudi gli occhi e lascia guardare le mani.

Così feci. Non so se è più bello essere massaggiati o massaggiare, sicuramente fare entrambi con una donna come Lei era il massimo. Non saprei descrivere le sensazioni.

Provai a ricordare quello che le sue mani avevano fatto sul mio corpo, cercando di rifarlo sul suo. Cominciai dalle spalle, cosi' come aveva iniziato lei. Pelle liscia sotto le mie dita inesperte. Muscoli sodi, fluidi, tonici. Non avevo mai massaggiato nessuno prima di allora, ma forse piu' che un massaggio si trattava di carezze, forse la differenza non e' poi cosi' marcata.

Stavo bene, stavo facendo qualcosa di bello, di piacevole, per me e a giudicare dalle sue reazioni anche per lei.

Dopo le mani cominciai a usare le labbra, la lingua. Lei fece altretta to su di me.

Non so per quanto andammo avanti con questo gioco di reciproca scoperta dei nostri corpi.

Dicerto il tempo non aveva piu' importanza. Una sequenza di eccitazione, desiderio,briciole di piacere cha sale piano, lentamente. Trattenersi e lasciarsi andare. Inseguire tracce, odori e sapori. Ricalcare i passi, approfondirli, meditarli.

Non riesco a descrivere compiutamente, perche' non riesco a ricordare, tutto cio' che ho provato. L'ultima cosa che ricordo e' che ad un certo punto, abbracciato a lei sentii tutto il mio esere che si abbandonava ad un torpore fatto di piacere provato, di soddisfazione, di sfinimento, di sonno incombente.

Non so dopo quanto tempo mi svegliai, non c'erano orologi e le tende della finestra chiuse, ma non sapevo neanche il giorno. Potevo ave passato in quella stanza una sola notte o una settimana. Aprii gli occhi e girai la testa, il letto era vuoto, mi sentii perso. Mi alzaie andai a guardare in bagno. Nessuno. Non c'erano altri posti. Lei se n'era andata.

Aprii la porta e uscii nel corridoio. Era lo stesso ch ricordavo, con le porte e le macchinette. Provai ad aprirle tutte ma erano sprangate, andai verso la scala. Nessuno nel gabbiotto.

Scesi le scale, nella sala alcune persone ai tavolini, una coppia in un separe' e il barista al suo posto dietro al bancone. Mi avvicinai a lui e gli chiesi:

-La signora della stanza 12 - nebbia non sapevo neanche il suo nome- sa dirmi dove posso trovarla?-

-Le e' piaciuto?-mi rispose-

-Vorrei solo sapere dov'e'- balbettai.

-Sara' tornata a casa, presumo.- disse-

-E lei sa dove abita? -ripresi.

-Ovviamente no -rispose- mi accorsi che il suo sguardo si faceva piu' duro. Non mi avrebbe detto altro. Tutto era cosi' assurdo. Un posto che arrivava da chi sa dove, anacronistico, una donna che... non riesco a trovare paragoni.

Preferiti non insistere, quindi me ne andai. Uscii nel cortile, o meglio, nella piazza. La canicola era sempre la  stessa, il mio mondo ocra pure.

Ci misi un po' a trovare la strada di casa. Ma alla fine riuscio ad arrivare.

Rividi il cortile dal quale tutto era partito. Non c'era nessuno, solo la polvere, il caldo e l´afa.

Saluti dalle scale esterne, non incontrai anima viva.

Entrai nel mio alloggio, andai verso il box.

Presi la pillola nera.






Ocra 2
 Ulceratico (2012)


Fine