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OCRA
Cap.
1
Fu
il caldo a svegliarmi. Avvertivo il mio corpo nudo sotto
il leggero lenzuolo che mi copriva. Dalla finestra aperta,
leggermente oscurata da una semplice tenda di stoffa ocra
non entrava un filo d'aria. Anche la tenda cadeva a piombo
fino a terra. Mi sollevai a sedere sul letto e mi guardai
intorno, era la mia stanza, la conoscevo bene, ma era
diventata un'abitudine scorrere con gli occhi ciò che mi
stava intorno, ovviamente nulla era cambiato da quando
durante la nottata mi ero messo a letto.
Alla
mia sinistra oltre al basso tavolino che usavo come
comodino, c'era la solita cassapanca di plastica a ripiani
estraibili e polifunzionali, la porta d’ingresso con la
sua tenda, un po’ più spessa di quella della
porta-finestra ma della stessa nuance di colore, il
blocco-ufficio, un parallelepipedo giallastro da chiuso ma
che aperto avrebbe svelato tutte le possibilità di un
moderno centro comunicazioni. Proseguendo con uno sguardo
circolare, sull'altra parete perpendicolare, la tenda che
portava al cubicolo igienico, un guardaroba di plastica
con ante riflettenti, una poltrona anatomica nell'angolo,
la porta-finestra, una libreria con pochi libri ancora in
formato cartaceo e oggetti vari alcuni dei quali non
ricordo bene né la loro destinazione d'uso originaria né
dove cavolo li avessi trovati.
Tutto era in ordine, difficile essere disordinati quando
non si possiede quasi nulla, mi alzai e mi diressi verso
il bagno.
Anche il cubicolo sanitario era a posto, il water non si
era spostato e il box doccia-UV-idromassaggio & C mi
aspettava nel solito angolo. Una cassettiera, anch'essa in
plastica ma intonata ai muri
piastrellati di un azzurro pallido e cinereo.
Anche la tenda della porta-finestra del bagno era
immobile.
Finite che furono le mie abluzioni uscii direttamente sul
balcone nudo com'ero e come stavo sempre quando ero in
casa e non solo. Il balcone univa le due stanze e non era
più largo di un paio di metri. Dall'angolo di fronte alla
camera partiva, o meglio proseguiva dal piano superiore
una scala a chiocciola che toccando tutti i balconi dei
dieci piani di cui era formato lo stabile giungeva fino a
terra.
Io abitavo al terzo piano, la quinta porta a destra del
corridoio che partiva dalle scale interne e terminava dopo
venti porte per lato in una scala antincendio.
Dal balcone non si vedeva molto, il panorama era bloccato
da altri nuclei abitativi simili a quello nel quale stavo,
un po’ più alti o un po’ più bassi, tutti col tetto piatto
e tutti di un indefinibile color sabbia. Schiacciati uno
sull'altro, divisa da piccoli cortili cinti da muretti e
piccole stradine in terra battuta o plastica ma uniti in
alto da un intrico di scale, scalette e ponti sospesi.
In quell'afa ammorbante, nell'aria immobile, dietro alla
bruma giallastra e sabbiosa, si intravvedeva l'alone del
sole, ormai alto nel cielo.
Era mattina avanzata e per me non era giorno di lavoro.
Dei due giorni di turno che mi toccavano alla settimana,
quello non era il mio. Non seppi se gioirne o dolermene,
in fondo il lavoro era uno dei pochi diversivi che c'erano
e che imponessero l'uscire di casa.
Con quel dubbio in testa rientrai nel mio "regale"
appartamento e aprii il Box Ufficio per vedere se ci
fossero dei messaggi strani. No. Nessuno mi aveva cercato.
Nessuno mi stava cercando. Nessuno mi avrebbe cercato.
Passai al cassettone e lo aprii, il piano più alto sporse
in fuori a fungere da tavolo, il secondo, opportunamente
sagomato uscì a sua volta per formare due sedie, bastava
alzare lo schienale. Mi sedetti di lato in modo da poter
vedere l'olovisione del Box Ufficio. C'era il notiziario
ma non avevo preso il telecomando e il volume era
azzerato. Non avevo voglia di alzarmi e quindi lasciai che
le mute immagini danzassero davanti a me senza capire a
cosa si riferissero.
Guardai sullo schermo che si era sollevato dal tavolo
quando lo richiamai dal pulsante e controllai cosa c'era
di disponibile da mangiare a quell'ora. Il Pasto
Pneumatico è molto comodo, non devi far altro che
schiacciare una serie di tasti che, dopo pochi minuti,
dall'apposito scomparto, direttamente sul tavolo, sarebbe
arrivato l'involucro con le richieste ora esaudite.
Peccato però che a seconda dell'ora i menù o meglio i
piatti pronti variavano. Così il mattino non si poteva
ordinare una pastasciutta o via dicendo. Bibite, alcolici
e droghe varie invece non avevano ore specifiche. In
qualsiasi momento si poteva ordinare quello che si voleva.
Mi limitai a una tazza di syntocafè e a una brioche di
lieviti. Ordinai anche un pacchetto di sigarette
aromatizzate alla marijuana.
Fu aspirando una sigaretta che mi alzai e andai nuovamente
sul balcone. Il panorama non era cambiato, a perdita
d'occhio agglomerati di case come la mia, fino
all'orizzonte, o meglio fino a quando la polvere
canicolare permetteva di vedere.
Ogni tanto una strada più larga dove transitavano i pochi
mezzi di trasporto pubblici e privati di
superficie, camion, furgoni, tricicli della P. S.
Tutto il resto era sotterraneo. Se no, a piedi o al
massimo in bicicletta, i ricchi potevano permettersi
quelle elettriche, ma loro si permettevano anche di
lavorare quattro o cinque giorni alla settimana. Noi della
classe media, con due giorni di lavoro settimanali
pedalavamo, però potevamo permetterci di vivere in
un’unità abitativa singola. Chi viveva del solo sussidio
teneva tutta la famiglia in una casa come la mia, con più
una stanzetta per i bambini. C'era ancora gente che li
faceva. E pensare che una volta, li ho visti all'olotv in
un documentario storico, la gente era molto meno numerosa,
tutti possedevano una "automobile" che andava ad
idrocarburi e le strade erano piene di queste vetture. La
gente si vestiva per uscire perché la temperatura era
molto più bassa e le case avevano i tetti inclinati per
far scorrere l'acqua delle piogge che duravano quasi metà
dell'anno. Ora piove sì e no una volta il mese, quando al
Comparto Meteo, fra i posti di lavoro meglio pagati,
riuscivano a far condensare l'umidità e a far si che cadesse.
E' stata colpa loro, di chi ci ha preceduto,
se ora siamo così. Hanno distrutto la terra e ci
hanno lasciato le macerie.
Mentre ero occupato da questi tristi pensieri un rumore
che arrivava dal cortile mi distrasse, per fortuna, non
avevo voglia di pensare al passato remoto, né
alla mia situazione. Mi sporsi quindi dal muretto
che faceva da ringhiera e guardai in basso.
In un angolo del cortile, in un piccolo cono d'ombra c'era
una coppia tranquillamente impegnata in un amplesso.
Guardai meglio, era mia moglie con il mio amico Jack.
Pinky, seduta in terra a qualche metro di distanza, li
guardava un po’ distaccata. Forse si stava domandando se
valeva la pena unirmi a loro o fare altro, o restare li,
semplicemente a guardare. Era una scena abituale. Non
c'era molto da fare nella Città-Stato e il sesso era se
non altro un piacevole diversivo ed in più un po’ di
movimento faceva anche bene alla salute.
Cap.
2
Mi decisi. Meglio scendere con loro che restare da solo a
rimuginare sul come sarebbe stato vivere ai vecchi tempi.
Rientrai in casa, presi dalla Cassapanca una pillola
eccitante, spensi il Box e dalla scala del balcone scesi
in cortile.
Pinky era seduta sulla sua tunica in fibra ed era nuda,
guardava la coppia che stava scopando e piano piano si
masturbava. Fu distolta dal suo solitario piacere dal
rumore dei miei passi. Alzò la testa e mi guardò in
tralice un po’ perplessa poi socchiudendo gli occhi un
leggero sorriso le illuminò il bel volto scuro, il cranio
che come tutti, portava depilato, aveva una bella forma e
gli occhi erano di un marrone scurissimo, quasi nero. I
seni erano piccoli coi capezzoli eretti per la leggera
eccitazione. La pillola cominciava a farmi effetto quindi
decisi che la sua compagnia sarebbe stata un piacevole
diversivo.
Mi avvicinai sempre guardandola negli occhi, lei smise di
toccarsi, tirò su le ginocchia e allargò le gambe, si
appoggiò con le mani per terra e si inarcò leggermente
protendendo la vagina verso di me. Sapevo quello che
voleva, me lo disse con gli occhi e leccandosi le labbra.
Mi inginocchiai di fronte a lei, appoggiai i gomiti a
terra e con le mani strinsi i suoi glutei.
Sodi, magri e muscolosi. Sempre guardandola negli
occhi in quel nero profondo nel quale stavo per annegare,
mi chinai ancora di più fino a quando le mie labbra non
sfiorarono le sue, ma non quelle della bocca. Il suo sesso
era dischiuso e in quell'ostrica rosa s’intravvedeva la
perla, lentamente cominciai a sfiorarla con la lingua, a
trattenerla coi denti e con le labbra per poi lasciarla
andare. Continuai così per un po’, il tempo non aveva più
valore. Non era più quantificabile. La mia eccitazione
stava salendo ed anch’io salii, seguii il suono dei suoi
respiri sempre più frequenti, modulati, sonori.
Salii, con le labbra, con la lingua, salii e baciai il
monte di venere, mi infilai nell'ombelico, andai a cercare
i chiodi puntati verso il cielo dei suoi capezzoli.
Lentamente spostai una mano fino ad appoggiarla a fianco
della sua testa, con l'altra mi presi il membro e le
massaggia le labbra della figa e il clitoride più e più
volte, poi pochi millimetri alla volta, entrai in lei.
Lentamente, fino in fondo; i nostri respiri si
interruppero, divennero ansimi all'unisono. Tolsi la mano
che ci divideva e appoggiandomi del tutto su di lei, pelle
contro pelle il più possibile, andai a cercarle le mani,
allungandoci, ormai un corpo solo, con le dita intrecciate
dietro la testa, la baciai. Rimanemmo fermi per un po’,
unico movimento le nostre labbra e le nostre lingue che si
cercavano, si esploravano.
Un attimo di
dolce eternità.
Sentivo i suoi muscoli della vagina che si contraevano
ritmicamente intorno al mio sesso pulsante in sincrono.
Cominciai a muovermi lentamente, un moto ondoso che lei
assecondava e accompagnava. Il piacere salì sempre
dolcemente fino alla sua naturale esplosione orgasmica.
Restammo lì ancora per un po’, abbracciati l'uno
sull'altra, ansanti e coi corpi lucidi di sudore.
Poi anche i respiri si calmarono e ripresero il loro ciclo
normale. Mi staccai da lei e mi stesi al suo fianco. La
nostra pelle non era più a contatto.
Guardai il cielo giallo di polvere poi chiusi gli occhi
cercando di pensare a nulla.
Sentii Pinky rizzarsi e ancora seduta infilarsi la tunica,
mi fece una carezza sul ventre, si alzò e andò via.
Non avevamo detto una sola parola.
Due solitudini che s’incontrano,
scambiano emozioni
per trovare altre solitudini e si lasciano per
rimanere nuovamente soli.
Rimasi sdraiato a contemplare un cielo che non era diverso
dalla terra, stesso colore, stesso sapore, quasi la stessa
densità.
Cap.
3
Fu
mia moglie che mi sottrasse alle lugubri peregrinazioni
mentali che mi assillavano sedendosi accanto a me. Non mi
toccò, non mi guardò, semplicemente disse
-Piacere o vendetta?
-Piacevole esercizio ginnico-dissi-e per te?
-Idem.
-Perché non sei venuta da me?
-Ci vengo quando ho voglia di te, non quando ho voglia di
sesso.
Questa risposta mi fece un po’ ammutolire. Che cosa voleva
dire? Che con me il sesso faceva schifo? Che da me voleva
solo un po’ di compagnia intellettuale ma che il piacere
fisico preferisse cercarlo altrove?
Girai leggermente la testa e la guardai in controluce. Era
indubbiamente una bella donna, in un mondo sempre più
androgino lei aveva mantenuto forme e aspetti tipicamente
femminili. Certo non aveva mammelle bovine com'era di moda
ai vecchi tempi, ma il suo seno era pieno e si protendeva
in avanti senza subire la gravità in maniera palese.
La sua figura era armoniosa, non un filo di grasso in più
del dovuto, ma comunque morbida e flessuosa. Il suo volto
era dolce, i suoi occhi, nocciola con pagliuzze marroni
erano dolci. Il suo carattere un po’ meno.
Eravamo sposati da dieci anni ma dopo il primo anno di
convivenza anche lei trovò un lavoro e decise di vivere da
sola, in realtà abitavamo sotto lo stesso tetto solo che
io stavo al terzo piano e lei al sesto. Ci vedevamo
spesso, anche se non spessissimo, i nostri turni di lavoro
non coincidevano, comunque fino ad ora il nostro rapporto
era stato solido, parlavamo di tutto e in lei trovavo
anche un’amica, un’amante appassionata, una confidente.
Non si era mai parlato di fedeltà coniugale, ormai non si
usava più e solo qualche eccentrico pretendeva la
convivenza e la fedeltà monogamica del partner.
Fu la sua voce a rispondere e in parte, a fugare i miei
dubbi.
-Mi spiego meglio-disse appoggiandomi una mano sul
petto-quando ho voglia di te intendo te in senso globale,
tu, l'ammasso di neuroni asfittici che hai nel cranio e
anche il coso che hai in mezzo alle gambe. Mi piaci tutto
e quando ti voglio, ti voglio tutto e mi piace moltissimo
fare l'amore con te.
Questo mi risollevò un po’ il morale ma lei riprese
guardandomi il volto ma non negli occhi.
-A volte però ho solo voglia di...come dire... di
togliermi un prurito ecco; e venire da te sarebbe come
mettersi un vestito nuovo per andare a fare un lavoro
sporco, ecco, sprecato.
Lasciò la frase un po’ in sospeso, ma poi proseguì:
-E tu? Cosa facevi con Pinky, vuoi sposare anche lei?
-No-la interruppi-non è così, è...com'è che hai detto? Un
prurito. Ti ho visto all'opera e mi è venuta voglia,
volevo smettere di pensare a quello che stavo pensando...
e comunque Pinky già si stava arrangiando e non ha detto
una parola...
Già-mi interruppe-parla sempre meno, secondo me esagera
con tutte le pastiglie che prende; guardala... Mi sollevai
a sedere e seguii il suo sguardo, Pinky era arrivata alle
scale e le salive lentamente, sembrava in trance. Anche
lei abitava nel condominio, così come Jack, l'amante
occasionale di mia moglie. In genere i rapporti si
giocavano all'interno dello stesso stabile o in qualcuno
adiacente, troppo complicato spostarsi in un'altra parte
della città se non era necessario. Anche al lavoro, quando
si scherzava di questi flirt canicolari, si definivano
amori da cortile. Ma Pincky ormai vedeva solo più il
sesso. Io o chiunque altro non avrebbe avuto importanza.
Quello che contava era il piacere, l'immediata scossa che
annullava tutto il resto.
-Non mi stupirebbe se prima o poi si facesse
impiantare-dissi.
Poi presi la mano di mia moglie, la bacia e me la
appoggiai in grembo. Restammo in silenzio; ognuno perso
nei propri pensieri. Io riflettevo su quello che avevo
appena detto: impiantarsi, ne avevo visti tanti. Sparivano
per un paio di giorni e poi li vedevi tornare con un bel
forellino di metallo borchiato sul lato sinistro del
cranio, giusto dietro l'orecchio. Bastava collegare un
cavetto dall'impianto al Box Ufficio e con pochi comandi
si potevano provare tutti o quasi i piaceri del mondo, il
sesso, il cibo, gli odori, alcune emozioni e chissà
quant'altro. Il fatto è che a forza di assaporare questi
piaceri elettronici del cibo e delle bevande, ci si
dimenticava di mangiare e di bere sul serio. E si moriva.
Il governo della città aveva tentato, in un primo tempo,
di arginare questo fenomeno, mettendo dei blocchi nel
software di distribuzione, ma era facilmente aggirabile da
chi s’intendesse un minimo d’informatica, e per chi non la
conoscesse si poteva sempre usare il Box di qualcun altro,
ma comunque se una cosa è illegale, trovi sicuramente
qualcuno che la vende.
Insieme alla pillola nera, la morte per sete da
collegamento (si muore prima per sete che per fame), era
la seconda causa di morte fra i civili. La pillola nera,
già, quante volte ci avevo pensato prima di sposarmi. Dopo
la scuola, obbligatoria per tutti, io avevo scelto di
continuare a studiare, non volevo chiudermi in casa con
altra gente a guardare l'olovisione, a riempirmi di
pillole e/o a scopare. io volevo un lavoro, un qualche
cosa da fare, e
l'unica maniera per accedere ai concorsi, sempre più rari
era di studiare. Così feci e dopo qualche tempo ebbi fortuna, solo
così si può chiamare, perché fu bandito un concorso per
tecnico degli impianti di rifornimento di terza classe e
lo vinsi per un lavoro di due giorni alla settimana. Se
avessi continuato con gli studi forse avrei potuto fare
carriera e passare al secondo e poi, magari, al primo
livello. E poi ancora, sempre studiando, ma i concorsi più
si alzava il grado più erano rari, e guarda caso ci
accedevano solo i parenti e gli amici dei potenti,
arrivare ad essere Amministratore e abitare verso il
centro della città, ammesso che ne avesse uno, comunque
vicino ad un centro amministrativo dove ogni appartamento
aveva il suo giardino, anche se striminzito e dove non
esistevano gli amori da cortile, c'erano, ma si preferiva
avere e pretende un po’ più di privacy.
Ma io conobbi lei, all'entrata e all'uscita dalla scuola
per tecnici. Non ricordo più bene quale scusa trovai per
parlare con lei, fatto sta che ci incontrammo sullo stesso
terreno. Ci piacevano gli stessi programmi olotv, volevamo
entrambi un lavoro e non essere larve, ascoltavamo la
stessa musica. Insomma ci innamorammo. Oltretutto lei
abitava solo a qualche condominio di distanza, quindi
potevamo spesso ma non sempre, prendere la metro insieme.
Io ero un po’ più avanti di lei negli studi e quindi feci
il concorso per primo. Quando lo vinsi ed acquisii il
diritto ad un alloggio tutto mio, decidemmo di sposarci e
l'alloggio del tutto mio divenne l'alloggio del tutto
nostro.
Fu un anno meraviglioso. Io lavoravo, lei
studiava. Quando eravamo insieme in casa era sempre una
festa. Facevamo l'amore ovunque ci capitasse, indifferenti
all'ora e al momento, accorti solo per la scuola ed il
lavoro. Poi anche lei fece il concorso e lo vinse e andò a
lavorare. Non potevamo avere un alloggio più grande,
quello era previsto solo in caso di figli, ma lei, essendo
ormai un tecnico, poteva averne uno tutto suo. Così
aspettammo che si liberasse un alloggio nello stesso
stabile e lei lo occupò. Nei primi tempi eravamo sempre
insieme lo stesso, poi mano a mano cominciammo a stare un
po’ più di tempo ognuno per conto suo.
Prima di conoscere lei non mi ero mai posto il problema
della fedeltà o di un rapporto affettivo stabile. Quando
avevo voglia di sesso, scendevo in cortile o in qualcuno
vicino dove sicuramente avrei trovato una ragazza con
altrettanto desiderio. Quando però la conobbi, non ebbi
più bisogno di altro, soddisfaceva pienamente ogni mia
aspettativa ed io per lei, o almeno credevo.
Ma poi stando più da soli, succedeva che non si aveva
voglia di aspettare l'altro e allora si scendeva in
cortile. A cercare gente come Pinky o come Jack.
E ora lei mi veniva a dire che erano due cose diverse. Mi
sentivo un po’ perplesso, quasi sbalordito. Io nella mia
ignoranza pensavo fosse solo sesso, anche con lei. Lei
invece ci aveva messo dentro anche il sentimento. L'amore.
Mi sentii un po’ una merda. Cercai di guardarmi dentro e
trovare un qualcosa: potevo tranquillamente affermare che
pensavo spesso a lei, era arguta, divertente, faceva bene
l'amore con me, potevo anche parlare di lavoro, visto che
anche lei era impegnata e non c'era la solita invidia di
chi viveva del solo sussidio nei confronti di chi
lavorava. Quindi era ovvio che preferissi stare con lei
quando avevo voglia di un po’ di compagnia.
Per il resto quasi tutto, anche per i Non Occupati, era a
disposizione gratuitamente: cibo, programmi olotv, droghe
varie, vestiti, tranne quelli di lusso. Insomma gli altri
non è che servissero a soddisfare qualche bisogno, erano
una compagnia, qualcuno con cui mangiare ogni tanto,
commentare un olo, fare sesso.
C’eravamo sposati perché all'epoca lei studiava ancora e
c'erano delle agevolazioni per i coniugi a carico. Insomma
forse un po’ di affetto lo provavo, quando si sta bene con
una persona, ci si affeziona. Ma la amavo? Non riuscivo a
darmi una risposta.
Non avevo ancora mosso un muscolo.
Fu lei a togliermi da quella trance angosciante. Tolse la
mano dal mio petto con una carezza, io mi misi
a sedere e la guardai, lei girò la testa e mi
fissò negli occhi.
-Non capisci vero?-disse dolcemente. Non sapevo cosa
rispondere. Mi sentivo annichilito, perso, guardavo i suoi
occhi, cercavo di penetrarli, di entrare in lei, di
capirla, di entrare in empatia. Tutto attorno il resto era
sfuocato, lattiginoso.
Il suo volto, il suo corpo e più in là il cortile, i muri,
inconsistenti, privi di materialità.
Non sapevo che cosa dire. Sabbia nella sabbia, mi sentivo
come una statua di sabbia che si sgretola in un mondo di
sabbia. Il vento limava tutte le superfici in vortici di
polvere giallastra. Tutto era giallastro. Anche il mio
cuore mi sembrava giallastro. Tutto era giallastro, ocra.
-Non so che dire.
Distolsi lo sguardo e cercai di focalizzare l'ambiente che
mi circondava. Vedevo solo polvere gialla. Spostai il
braccio a circondarle la vita, sentivo sotto la mano la
calda, serica morbidezza della sua anca. La desideravo. Un
singulto uscì spontaneo dalla mia gola, un peso mi
chiudeva lo stomaco, una morsa mi stringeva il cuore.
-Non so che dire-ripetei-hai sempre avuto la capacità di
spiazzarmi.
-Ah-sorrise-qualche reazione, non solo biologica allora ce
l'hai. Forse puoi ancora salvarti-disse cercando di nuovo
di agganciare il mio sguardo.
La fissai nuovamente, interrogativo.
-Forse in te c'è ancora qualche barlume di sentimento.
Forse basterebbe riportarlo a galla.
-Non so-balbettai-non capisco bene, cioè ciò che vuoi
dire, cioè...
-Non capisci o fai finta di non capire?
-No, o meglio si, cioè, cazzo, non è che non voglia
capire, ma non capisco, è come se qualcosa di importante
mi sfuggisse, anche se è li, davanti agli occhi. E' come
sabbia fra le dita.
Presi un pugno di terra e me lo feci scorrere nella mano.
Guardai la polvere che si alzava e veniva portata via dal
vento mentre i granelli più pesanti ricadevano al suolo.
Dov'ero io? Nella polvere, nel pulviscolo che vagava
nell'aria o nella terra che ricadeva?
Cosa voleva dirmi? Dove voleva portare il mio pensiero?
Non riuscivo proprio a capirlo. Cosa voleva da me?
Glielo chiesi. Non rispose. Scivolò via dal mio abbraccio
e si alzò.
-Vieni-disse.
Cap.
4
Allungò una mano, la presi e mi alzai a mia volta.
Adesso eravamo di fronte, occhi negli occhi. Mi chinai
leggermente e la baciai sulle labbra con delicatezza, poi
la strinsi a me. Sentivo il suo corpo contro il mio,caldo,
dolce, confortante. Il nodo al mio stomaco si strinse
ancora di più ed io strinsi lei ancora di più. In quel
momento avrei voluto fondermi con lei, introiettarla,
creare un unico corpo, una statua con due schiene eretta
in un mondo di sabbia.
Ma il vento ci sgretolava. Mollai la stretta, mollai la
presa. Rimasi lì a guardarla.
-Andiamo.
Mi prese la mano e si incamminò. Mi lasciai tirare e la
seguii docilmente. La sabbia sollevata dai nostri piedi
scalzi formava dei piccoli vortici intorno alle caviglie,
continuai a guardarli mentre mi lasciavo condurre. Poi
alzai gli occhi, vidi le sue gambe, scure e tornite, i
morbidi glutei, la schiena eretta, le spalle dritte, il
capo leggermente proteso in avanti, deciso. Aveva una
meta. Non sapevo quale, seguivo i suoi passi come uno
zombie. I miei pensieri erano come un mosaico di tessere
scomposte, un puzzle incompleto, un labirinto senza via di
uscita, così come lo erano le stradine che stavamo
solcando, com'era tutta la città, com'era il mondo.
Mi accorsi che stavamo entrando nella parte vecchia del
quartiere. Un tempo era il centro di una cittadina che era
distante dalla metropoli, ma poi le varie periferie si
allargarono fino a fondersi le une alle altre inglobando
tutti i paesi vicini.
Ma lì nel vecchio centro resistevano ancora le vecchie
case e le vecchie strade, vicoli stretti, scale esterne,
qualche raro balcone. Ma sempre la polvere, che tutto
copriva e tutto nascondeva.
Giungemmo infine in una specie di cortile, ma non c'erano
muretti a delimitarlo, ma solo case, sapevo che una volta
era una piazza. Intorno a me basse costruzioni giallastre
coi tetti piatti per l'acqua. Al centro una specie di
monumento, vecchio, molto vecchio, eroso dai secoli ma
ancora in piedi. Mi avevano detto che era di granito,
ormai era solo un parallelepipedo a base quadra che si
stringeva mano a mano verso la punta. Se c'erano
iscrizioni o altro ormai erano state cancellate dal vento.
Era ormai solo un patetico simbolo fallico che si spingeva
in alto nella bruma gialla e sporca.
Ci dirigemmo verso una delle case all'angolo, verso una
porta che si apriva sulla piazza come un nero foro
rettangolare, e tale era.
Mia moglie si fermò proprio davanti all'ingresso, mi mise
le mani sulle spalle e mi guardò negli occhi
-Entra e vai-mi disse.
-Ma p...-feci per dire ma lei mi interruppe posandomi un
dito sulle labbra.
-No-fece-non dire niente, entra e basta. Ci rivedremo a
casa.-terminò.
Mi lasciò andare e si incamminò verso la via dalla quale
eravamo arrivati, non si voltò neanche una volta.
All'improvviso scomparve, non la vidi più. Solo le case,
offuscate, e me, offuscato, come i miei pensieri e solo,
molto solo. "Entra e basta" mi aveva detto. Perché? Mi
chiesi. Con quale scopo? Non lo sapevo, non mi aveva detto
niente. Rimasi li, imbambolato non so per quanto tempo.
Nessuno entrava o usciva dalla piazza, dalla porta non si
udiva nulla. Ero solo in mezzo ad un nulla di sabbia e
cemento. L'ocra gialla mi entrava negli occhi e nel naso
ed io ero lì fermo a guardare quel buco nel muro, non
sapevo cosa fare, sapevo solo che mi aveva detto di
entrare. Perché mai mi ero lasciato trascinare fin lì?
Perché sarei dovuto entrare? Cosa mi attendeva una volta
varcata la soglia? Dov'ero? Entrai.
Fuori era il silenzio. Dentro il brusio. Fuori la luce.
Dentro il crepuscolo. Fuori il deserto. Dentro la vita, la
gente.
Appena varcai la soglia ed entrai sentii uno sbuffo alle
mie spalle, intuii che fosse uno schermo acustico perché
da fuori non si sentiva niente mentre all'interno il
vociare delle persone era chiaramente avvertibile anche se
non disturbante. La luce era fievole e donava alle cose
morbide ombre, un chiaroscuro dato da obsolete lampade al
neon che correvano sugli spigoli del soffitto. La stanza
era ampia, compresi che era un vecchio Bar. Sapevo che una
volta le città erano piene di questi posti dove la gente
si trovava per mangiare, bere, fare giochi sociali,
conoscere altre persone. Probabilmente qualcuno aveva
riesumato e rimesso in funzione uno di quei vecchi locali.
Mi guardai intorno. Alla mia sinistra la sala procedeva
per qualche metro ed era occupata da una decina di
tavolini rotondi con quattro sedie per ciascuno. Metà
circa erano occupati da persone sole o a coppie, qualcuno
leggeva, libri di carta o videolibri, altri parlavano a
bassa voce. Alla mia destra la sala era simmetrica ma al
posto dei tavolini c'erano dei separé, cinque per lato con
divanetti e tavolini rettangolari. Non riuscivo a vedere
se fossero o meno occupati. Di fronte a me lo spazio
libero e poi un bancone a forma di U, sulla sinistra
partiva una scala che portava ad una specie di ammezzato
che faceva da contro tetto al bancone stesso ed al quale
erano appese delle
staggere di bicchieri di forme e dimensioni diverse. Alla
destra del bancone, di fianco al primo separé una porta
aperta che dava su un corridoio. Dietro il bancone, un
uomo. Sollevò lo sguardo, mi fisso per un attimo, mi fece
un sorriso di cortesia e riprese a fare quello che stava
facendo prima, mi avvicinai al bancone, non sapevo cosa
fare, cosa dire. Non ero l'unico nudo li dentro ma in quel
momento la mia nudità mi imbarazzava, avrei voluto la mia
tunica che mi proteggesse. In realtà nessuno aveva fatto
caso a me. Solo l'uomo del bancone mi aveva notato. Mi
aveva guardato ed era stato quello sguardo che mi aveva
messo a disagio, mi ero sentito come spogliato, anche se
ero nudo. Mi sembrava che con una sola occhiata mi avesse
guardato dentro e adesso sapesse tutto su di me. Mi
avvicinai ancora un poco e riuscii a vedere cosa faceva
dietro al banco: stava affettando dei limoni in un
piattino.
Limoni veri? Piattini? Voltai un po’ lo sguardo e cercai
ma non vidi olo, schermi per gli ordini, feritoie da
trasporto. Niente né sul bancone né sui tavolini che
potevo vedere. Rimasi lì come un deficiente, non sapevo
come comportarmi, cosa dire, cosa fare. Non sapevo neanche
che cosa pensare, ero lì perché lei mi ci aveva portato.
"Entra" aveva detto, ed io ero entrato. E ora? Dovevo
uscire? Avevo visto il bar, un residuato, un anacronismo,
una specie di rievocazione storica. Che significato,
ammesso che ne avesse uno, poteva avere per me?
Va bene, non disdegnavo le vecchie leggende e mi piacevano
gli oggetti di antiquariato, anche se non potevo
permettermeli, ma perché mi aveva portato li? Perché mi
aveva fatto entrare? Da solo?
Ero un po’ spaurito, non sapevo cosa attendermi o cosa
avrei dovuto fare. Perché non era entrata con me? A chi
aspettava la prossima mossa?
Fu l'uomo a salvarmi dall'empasse, si avvicinò a me
dall'altra parte del bancone e mi porse un foglio di
plastica e un "buon giorno signore".
Risposi anch'io con un buongiorno e non sapendo cosa fare
presi il foglio che mi porgeva e lo guardai. Era un menù.
Almeno quello potevo capirlo.
-Se vuole accomodarsi ad un tavolo fra un minuto sarò da
lei per l'ordinazione-disse sorridendo.
Il sorriso era cordiale ma lo sguardo sembrava sempre
indagatore, con gli occhi socchiusi che sembrava non
sbattessero mai. Sorrisi a mia volta, risposi con un
grazie e mi avviai verso un tavolino. Era ovvio che le
persone da sole dovessero andare ai tavoli, i separé erano
per le coppie o i gruppi e l'uomo dicendomi di
"accomodarmi ad un tavolo" praticamente non mi aveva dato
scelta.
Mi accomodai quindi al primo tavolino libero,
inconsciamente sedetti sulla sedia con le spalle al muro,
di li potevo guardare tutta la sala, gli altri tavoli, il
bancone, i separé, la scala e l'ingresso al corridoio.
L'ingresso era di fianco a me, le persone sedute agli
altri tavoli non mi notarono, solo uno alzò lo sguardo per
un attimo da libro che stava leggendo, mi guardò appena,
poi si ributtò nella lettura, pensai vagamente che forse
aspettava qualcuno. In fondo non era un brutto posto per
aspettare, meglio che nei cortili o nei vicoli.
Provai a guardare il menù, non era uno schermo e non era
interattivo, era proprio quello che sembrava, un foglio di
plastica con stampate le varie possibili ordinazioni. Gli
diedi una scorsa, poi un'altra, c'erano soprattutto
bevande, molte le conoscevo, altre non le avevo mai
sentite, anche i piatti avevano nomi strani, vecchi,
chissà come facevano a riprodurre certe anticaglie,
probabilmente era roba di sintesi che vagamente poteva
assomigliare agli originali. Optai per una birra, non
pensavo sarebbe poi stata così diversa da quella che avrei
potuto bere dal mio distributore casalingo. Un minuto non
era ancora passato e avevo appena deciso cosa ordinare che
mi ritrovai a fianco l'uomo del banco. Me lo ritrovai così
all'improvviso che quasi mi spaventò. Sempre col suo
sorriso cordiale ma che sembrava incollato sulla faccia mi
chiese cosa poteva portarmi.
-Una birra grazie-risposi.
-Subito signore-disse-si inchinò solo col capo, fece un
dietro front e andò di nuovo dietro al bancone, ci doveva
essere un'apertura sul lato destro. Lo seguii con lo
sguardo, anche lui era anacronistico, non portava come
quasi tutti, una tunica senza maniche che arrivava fino al
ginocchio e che era praticamente l'unico capo di
abbigliamento che tutti usavano. No lui portava dei
calzoni, quelli con due gambe; in genere si usano per le
cerimonie ufficiali o li portano i ricchi o gli
eccentrici, ed in più, infilata nei calzoni, portava una
blusa con le maniche, lunghe che coprivano i gomiti; ma
non solo, come ultimo vezzo retrò portava dei calzari. Il
tutto, calzari compresi non erano del solito color sabbia
o di qualche sua nuance ma erano neri, completamente neri.
Sorseggiai la mia birra, aveva un buon sapore ed era
fresca. Ancora non riuscivo a capire che cosa ci stessi a
fare lì, non pensavo che mia moglie mi avesse mandato ,o
meglio accompagnato, lì solo per bere una birra. Cosa
doveva succedere ora? Cosa dovevo aspettarmi? Dovevo
attendere qualcuno? Che accadesse qualcosa. Bevevo, mi
guardavo intorno, ma continuavo a non capire.
Mi stava salendo un po’ di rabbia. Volevo capire ma non
avevo gli strumenti adatti.
Finii la birra e mi chiesi se non fosse il caso di berne
un'altra, ma poi decisi che non era il caso. Posai il
bicchiere ormai vuoto, sul tavolo e come d'incanto l'uomo
del banco apparve al mio fianco.
-Posso servirle altro signore?-disse-magari uno
stuzzichino?
-No grazie...e che-stavo per raccontargli che non sapevo
per quale ragione fossi li ma mi sentii un idiota e
tacqui.
-Sta forse aspettando qualcuno?-mi prevenne quasi.
-No...cioè - dissi decisamente impacciato.
-Allora qualcuno l'ha mandata qua-disse con l'aria di uno
che la sa lunga.
-Ebbene sì...cioè, vede, mia moglie, ecco...-credo di
essere diventato rosso e mi sentivo le mani sudate, non
sapevo più che dire o che fare. Ma nuovamente l'omino mi
anticipò.
-Bene allora, guardi, salga le scale e parli con il
bigliettaio - il suo viso si era fatto più serio. Prese il
bicchiere dal tavolo e tornò alla sua postazione. Mi
guardai attorno ma nessuno degli avventori aveva fatto
caso al nostro scambio di battute e se anche lo avevano
notato, evidentemente, non era di loro interesse, nessuno
si voltò verso di me. Ero indeciso. L'uomo del banco aveva
detto che mi aveva mandato qualcuno, ed effettivamente mia
moglie mi aveva portato fino a lì e non mandato, ma non
era il caso di fare dei sofismi, era lì che comunque
voleva che andassi. Se così era, l'uomo mi aveva detto di
andare a parlare con il bigliettaio.
Bigliettaio? Che c'entrava un bigliettaio? Il termine
significava semplicemente uno che ha dei biglietti. Ma a
che possono servire dei biglietti?
Sapevo che c'erano ancora persone che per hobby scrivevano
a mano su della carta, appunto su dei biglietti. E poi se
li scambiavano. Ma io che c'entravo? Dovevano darmi un
biglietto? Qualcuno mi aveva scritto? Mia moglie? Oppure
avrei dovuto scrivere io un biglietto. Impossibile. Sapevo
leggere, come tutti, e se necessario potevo scrivere su
una tastiera, ma scrivere a mano, no, non avrei saputo da
che parte cominciare. Non sapevo bene cosa fare, ma tanto,
mi dissi fra me e me, non avevo niente da perdere a
seguire questo strano gioco.
Mi feci forza, qualche respirazione profonda e mi alzai.
Mi diressi lentamente verso le scale, sapevo di essere e
di sembrare molto impacciato ma nessuno fece caso a me,
anche l'uomo del bancone non fece nulla, mi voltava le
spalle e stava trafficando dietro al banco, o forse lo
faceva apposta per lasciarmi fare da solo. Non mi spronò
né mi fermò. Semplicemente continuò a trafficare.
Cominciai lentamente a salire le scale puntellandomi al
corrimano. Gli scalini erano, così come il mancorrente, in
legno. Una rarità riflettei con un angolo della mente
mentre il resto di essa continuava a chiedersi e a
chiedermi quale significato avesse tutta quella storia.
Giunsi infine al pianerottolo, praticamente era il
soffitto del bancone, si allungava alla mia destra come un
balcone con la ringhiera, sempre in legno, per terminare
in corrispondenza della fine del bancone con un corridoio
che si inoltrava nella casa. Era scuro e non vidi nulla se
non una specie di gabbiotto che faceva angolo, un semplice
parallelepipedo di vetro o plastica. Posi il piede
sull'ultimo scalino e quindi sul ballatoio, alla mia
destra il montante della scala, dove terminava il
mancorrente, si allargava a formare un piccolo ripiano
quadrato, una specie di tavolino. Sopra di esso una
ciotola che sembrava di terracotta, nera, lucida. Dentro
la ciotola c'erano vari foglietti di diverse misure con
strani disegni e simboli e numeri.
Intuii che doveva essere una specie di carta moneta come
usava una volta. Li guardai con più attenzione. Erano
stropicciati, un po’ sporchi, macchiati, slabbrati agli
orli, sembrava che fossero stati usati a lungo. Mi chiesi
se non fossero originali dell'epoca. Avrebbero avuto
almeno...non riuscivo a quantificare quanti anni potessero
avere. Chi si ricordava quando il denaro era stato
completamente abolito? Io no di certo, comunque se così
fosse di anni ne avrebbero avuti parecchi. E adesso? Cosa
dovevo fare? Anche quelli erano biglietti ma non li aveva
il bigliettaio. Non c'era nessuno lì. Intuii, più che
vedere che se c'era qualcuno avrebbe dovuto essere dentro
al gabbiotto. Mi sembrava l'unica cosa logica in quel
marasma di illogicità. Ma perché mettere dei
biglietti-soldi lì in cima alla scala? Bella domanda mi
dissi. Realizzai anche che non potevo restare fermo lì
come un palo per molto tempo. Qualcosa dovevo pur fare. Ma
cosa?
Sarei
potuto
scendermene e andarmene, ma poi cosa avrei detto a mia
moglie? Potevo tornare al tavolino, ma l'uomo del banco mi
aveva mandato su. Bene, l'unica cosa da farsi era andare
avanti e vedere cosa sarebbe successo. Pensai anche che se
lì avevano lasciato dei soldi a qualcosa dovevano pur
servire, da sempre il denaro aveva uno scopo principale,
anche se ormai ne facciamo a meno. Acquistare qualcosa.
Piano piano nella mia mente si affacciò un discorso
logico: i soldi servono per acquistare cose, lì c'erano
dei soldi; io dovevo andare dal bigliettaio forse, mi
dissi, se do dei soldi al bigliettaio, questo mi darà
qualcosa in cambio. Forse non era una soluzione
particolarmente logica, forse era un po’ contorta, ma era
l'unica che mi veniva in mente. Io con soldi, compro,
Bigliettaio ha cose, vende. Io do soldi a Bigliettaio e
lui dà a me qualcosa. Questo avrei potuto saperlo solo
mettendo in pratica il mio ragionamento. Fu quello che
feci, presi un po’ di quei biglietti-soldi e mi avvicinai
alla guardiola che all'improvviso si illuminò delineando
al suo interno una forma umana. Mi chiesi con un po’ di
ironia se la luce si sarebbe spenta se io avessi posato i
soldi. Sorrisi, ma non trovai la risposta. Proseguii sul
ballatoio e con pochi passi raggiunsi la guardiola, come
prevedevo era di plastica opaca, andava dal soffitto al
pavimento, sul davanti aveva una finestrella e dietro di
essa un uomo era seduto ad una specie di banco appoggiato
al pannello anteriore sul quale c'erano dei mazzi di
biglietti di vario colore e con dei numeri scritti sopra.
Mi avvicinai e guardai il tipo. Era insignificante, uguale
a tanti altri, sguardo spento e basta. Lo distingueva il
fatto di avere sulla testa, posato un po’ di sbieco uno
strano copricapo piatto con un'aletta rigida sul davanti e
degli strani fregi tutt'attorno.
Alzò gli occhi e mi guardò abbozzò una specie di sorriso e
mi chiese.
-Desidera?
Non sapevo che dire, potevo dirgli che era stata mia
moglie a portarmi lì o che l'uomo del bancone mi aveva
spinto sulle scale.
Probabilmente sapeva già quasi tutto, forse non che mi
mandava mia moglie ma che l'omino al bancone mi
avesse mandato su era una cosa abbastanza ovvia.
Non sapevo che altro dire o fare quindi gli sorrisi a mia
volta, un sorriso impacciato e timido, con un semplice
-buongiorno-gli diedi le banconote che avevo prelevato
dalla ciotola in cima alla scala. Ovviamente non sapevo
quante ne avevo e meno che mai se avessero un valore o
cosa.
Semplicemente ne avevo presa una manciata.
Per il bigliettaio invece avevano un significato ben
preciso. Le prese, le contò, le divise per colore e per
numero e aperto un cassetto sotto al suo banchetto, le
ripose ordinatamente in vari scomparti, poi richiuse il
cassetto, segnò quella che mi sembrava una cifra su un
foglio di carta che aveva davanti poi prese un biglietto
da uno dei mazzi che aveva sul banchetto, me lo porse,
guardando prima il biglietto e poi me.
-E' la numero dodici, più o meno verso la metà del
corridoio. Infili il biglietto nella fessura di fianco
alla porta, la scatola gialla.
Non sapevo cosa fare, se non proseguire. Lo guardai.
-Grazie-dissi.
Cercavo di essere educato e sicuro di me. Non lo ero.
Presi il biglietto e feci un paio di passi, alle mie
spalle la luce del gabbiotto si spense. Mi fermai e
guardai il biglietto, era di plastica rossa, su un lato
aveva un chip dorato e sull'altro il numero dodici
stampigliato in nero. Nient'altro. Ne dedussi che se
c'erano altre cose erano sul chip, ma evidentemente non
erano per me.
Le avrebbe lette la fantomatica macchinetta gialla, il
solito giallo ocra, il numero era sicuramente quello della
camera, a metà del corridoio aveva detto l'omino, mi
avviai lentamente con il mio biglietto in mano.
Cap.
5
Sei,
otto,
i pari alla destra, ovviamente i dispari dall’altro lato.
Dieci, dodici. Una porta, proprio una porta, non saprei se
di plastica o di legno, ma proprio una classica porta. Non
aveva maniglia ma di fianco c’era la scatola gialla con
una fessura.
Potevo
ancora
scappare, scendere le scale, ritornare nella piazza e
cercare la via di casa.
Non
lo feci. Infilai la tesserina che mi aveva dato
Bigliettaio nella scatola gialla.
La
porta, scorrevole, si infilò silenziosamente nel muro.
C’era solo buio. Un altro schermo, pensai. O lo varchi o
te ne vai.
Feci
un
passo ed entrai. Fui avvolto da uno strano profumo. In un
mondo che odora solo di sabbia e calore qualsiasi altro
profumo è come una botta in testa, penetrante.
Sapeva
di
fiori, di spezie, entrava nel naso ma lo sentivi anche
quasi in bocca, un sapore pieno, intrigante, piacevolmente
stuzzicante.
La
stanza, non troppo grande ma neanche minuscola, colpiva
subito l’occhio per la varietà di colori. Cavolo non avevo
mai visto tanti colori insieme se non all’olotv.
Pareti
cangianti
che cambiavano colore in continuazione, inseguendo strani
arcobaleni.
In
fondo alla camera un enorme letto. Ci si sarebbe potuto
dormire tranquillamente in quattro. Su un lato una porta,
mimetizzata nel muro. Verso di me, sulla sinistra due
poltrone e un tavolino con sopra un bicchiere ed una
bottiglia.
Su
una delle poltrone due occhi verdi mi fissavano. Gli occhi
appartenevano ad una donna, seduta, le gambe accavallate a piedi nudi,
con indosso una
specie di lunga giacca, con le maniche ampie, che la
copriva fino alle ginocchia, legata in vita da una
cintura.
In
mano aveva un bicchiere, ma il suo sguardo era fisso nel
mio.
Non
so quanti secondi rimasi imbambolato a guardarla.
L’impatto era stato così strano, anomalo, quasi
devastante. Il profumo che aleggiava, l’impatto visivo di
una cosa forse ancestralmente nota, ma non riconosciuta.
Cazzo,
aveva
i capelli! Non avevo mai visto dal vivo qualcuno con i
capelli. Neri, lisci, divisi
alla sommità della testa, le ricadevano ai lati
del viso, nascondendo le orecchie e creando dei
conturbanti chiaroscuri su un volto rosato.
Dov’ero
finito?
Senza
staccare
lo sguardo da me posò il bicchiere sul tavolino fra le
poltrone.
Ero
imbarazzato, lì, in piedi poco oltre la soglia, nudo,
davanti ad una visione che non riuscivo a completare, a
renderla intera, perdendomi in tutti i particolari dai
quali era composta.
La
vestaglia, rossa, di un materiale strano, morbido,
lucente. Sotto si insinuava la curva dei seni, pieni,
sodi.
Le
dita dei piedi, lunghe, con le unghie colorate. Unghie
colorate?
Le
mani, affusolate ma robuste, unghie dello stesso colore di
quelle dei piedi.
All’attaccatura
dei
seni un piccolo tatuaggio, unico ornamento, un simbolo a
me sconosciuto.
Le
ginocchia, chiare, la rotula in leggera evidenza, i
polpacci, dolci che terminavano in caviglie sottili.
Le
labbra, piene ma sottili, naturalmente rosee. Atteggiate
ad un sorriso strano, non di scherno, neanche di
curiosità. Sembrava accettazione consapevole. Come se Lei
sapesse già chi ero, cosa volevo, perché ero lì.
Ero
io però che non sapevo tutto ciò. Non avevo mai visto una
donna così bella e così da vicino, eppure distante
galassie.
Accentuò
il
sorriso e con la mano mi indicò qualcosa alla mia destra.
Riuscii a fatica a staccarmi dal mio basito stupore e mi
voltai. Appesa ad un gancio al muro c’era un indumento
simile a quello che indossava lei, però di un azzurro
scuro. La indossai e me la cinsi in vita, sembrava di
indossare una carezza. Con qualcosa addosso mi sentivo un
po’ meno a disagio.
Un
altro cenno con la mano, un altro sorriso. Esegui gli
ordini e andai a sedermi sulla poltrona, quasi di fronte a
lei. Presi il bicchiere e sempre in silenzio e senza mai
perdere il contatto oculare sorseggiai la bevanda. Non so
cosa fosse, credo un cocktail, di vini e succhi di frutta.
Niente mi sembrò così buono, mi resi conto che avevo la
bocca asciutta e secca, ne assaporai ancora un sorso poi
posai il bicchiere di fianco al suo.
Non
riuscivo a staccare il mio sguardo dai suoi occhi, verdi,
scuri, con piccole macchioline dorate e nere, ipnotici,
profondi. Una pozza nella quale era impossibile non
annegare.
Non
dissi niente, ero teso allo spasimo, sentivo tutti i miei
muscoli contratti.
Fu
Lei a rompere il silenzio, con un tono normale, quasi a
bassa voce, ma con un timbro che entrava e rimbombava nel
cervello disse solo:
-Rilassati.
A
malapena riuscii ad
appoggiare la schiena alla poltrona e cercai di
distendere i muscoli, lei si alzò, e si avvicinò. Non si
atteggiava a seducente, nessun movimento provocatorio,
niente moine.
Era
seducente, conturbante, naturalmente intrigante. La
guardai mentre si portava alle mie spalle poi fui
costretto a contemplare il muro che continuava a cambiare
colore mentre le sue mani massaggiavano sapientemente il
mio collo e le mie scapole.
Che
bella sensazione, difficile da provare, normalmente noi si
arriva direttamente al sesso, fatto e finito. Certe
raffinatezze si vedono all’olo ma non si praticano.
Sentire due mani che sciolgono i nodi dei muscoli è un
piacere impagabile.
Cominciai
a
sentirmi meglio e un po’ a mio agio.
Non
durò a lungo, sono abituato a prendere qualche iniziativa
e stare lì senza far niente mi sembrava strano. Però non
sapevo né cosa né come fare. L’unica cosa che mi venne in
mente da dire fu:
-Me
lo insegni?
Fu
una mezz’ora di una piacevolezza e una tranquillità
indescrivibile.
Si
alzò, mi prese per mano e mi portò su quell’enorme letto,
sciolse il nodo della sua cintura e lasciò che la
vestaglia le scorresse addosso. Quanto era bella, troppo.
Si
sdraiò sulla pancia e guardandomi in tralice si limitò a
dire:
-Prova,
chiudi
gli occhi e lascia guardare le mani.
Così
feci.
Non so se è più bello essere massaggiati o massaggiare,
sicuramente fare entrambi con una donna come Lei era il
massimo. Non saprei descrivere le sensazioni.
Provai
a
ricordare quello che le sue mani avevano fatto sul mio
corpo, cercando di rifarlo sul suo. Cominciai dalle
spalle, cosi' come aveva iniziato lei. Pelle liscia sotto
le mie dita inesperte. Muscoli sodi, fluidi, tonici. Non
avevo mai massaggiato nessuno prima di allora, ma forse
piu' che un massaggio si trattava di carezze, forse la
differenza non e' poi cosi' marcata.
Stavo
bene,
stavo facendo qualcosa di bello, di piacevole, per me e a
giudicare dalle sue reazioni anche per lei.
Dopo
le
mani cominciai a usare le labbra, la lingua. Lei fece
altretta to su di me.
Non
so per quanto andammo avanti con questo gioco di reciproca
scoperta dei nostri corpi.
Dicerto
il
tempo non aveva piu' importanza. Una sequenza di
eccitazione, desiderio,briciole di piacere cha sale piano,
lentamente. Trattenersi e lasciarsi andare. Inseguire
tracce, odori e sapori. Ricalcare i passi, approfondirli,
meditarli.
Non
riesco a descrivere compiutamente, perche' non riesco a
ricordare, tutto cio' che ho provato. L'ultima cosa che
ricordo e' che ad un certo punto, abbracciato a lei sentii
tutto il mio esere che si abbandonava ad un torpore fatto
di piacere provato, di soddisfazione, di sfinimento, di
sonno incombente.
Non
so dopo quanto tempo mi svegliai, non c'erano orologi e le
tende della finestra chiuse, ma non sapevo neanche il
giorno. Potevo ave passato in quella stanza una sola notte
o una settimana. Aprii gli occhi e girai la testa, il
letto era vuoto, mi sentii perso. Mi alzaie andai a
guardare in bagno. Nessuno. Non c'erano altri posti. Lei
se n'era andata.
Aprii
la
porta e uscii nel corridoio. Era lo stesso ch ricordavo,
con le porte e le macchinette. Provai ad aprirle tutte ma
erano sprangate, andai verso la
scala.
Nessuno nel gabbiotto.
Scesi le scale, nella sala alcune persone ai
tavolini, una coppia in un separe' e il barista al suo
posto dietro al bancone. Mi avvicinai a lui e gli chiesi:
-La signora della stanza 12 - nebbia non sapevo
neanche il suo nome- sa dirmi dove posso trovarla?-
-Le e' piaciuto?-mi rispose-
-Vorrei solo sapere dov'e'- balbettai.
-Sara' tornata a casa, presumo.- disse-
-E lei sa dove abita? -ripresi.
-Ovviamente no -rispose- mi accorsi che il suo
sguardo si faceva piu' duro. Non mi avrebbe detto altro.
Tutto era cosi' assurdo. Un posto che arrivava da chi sa
dove, anacronistico, una donna che... non riesco a trovare
paragoni.
Preferiti non insistere, quindi me ne andai.
Uscii nel cortile, o meglio, nella piazza. La canicola era
sempre la stessa,
il mio mondo ocra pure.
Ci misi un po' a trovare la strada di casa. Ma
alla fine riuscio ad arrivare.
Rividi il cortile dal quale tutto era partito.
Non c'era nessuno, solo la polvere, il caldo e l´afa.
Saluti dalle scale esterne, non incontrai anima
viva.
Entrai nel mio alloggio, andai verso il box.
Presi la pillola nera.
Ulceratico (2012)
Fine
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